Vittorio si è sposato con una donna con un passato. Serena era già stata sposata e aveva una figlia dal primo matrimonio, Ginevra. Quando mio figlio me l’ha presentata, ho guardato la bambina con diffidenza. Ma quello sguardo è sparito nel momento stesso in cui Ginevra si è stretta a me con un timido «ciao». Manine piccole, occhi grandi, tanta fiducia — come resistere?
Sono passati anni. Vittorio ha cresciuto Ginevra come fosse sua, senza mai fare distinzioni. La portava a scuola, controllava i compiti, giocava con le bambole, costruiva castelli di Lego e, quando si ammalava, non si allontanava dal suo letto. Per lei era tutto. E anche io ho fatto parte di quel mondo. La prendevo da scuola, la tenevo quando Serena e Vittorio volevano una serata da soli. Le facevo regali, la chiamavo nipote come gli altri figli di Vittorio, anche se Ginevra non era mia sangue. Ma nell’amore, questo conta davvero?
Con Serena andavamo d’accordo. Senza troppa intimità, ma senza litigi. Le aiutavo come potevo: con soldi, consigli, attenzioni. Il padre biologico della bambina era sparito subito dopo il divorzio, mandava giusto qualche spicciolo di mantenimento. Niente cure, niente presenza — come se Ginevra fosse capitata per caso nella sua vita.
E poi quella bambina è cresciuta. In un attimo. Mi sembrava ieri che le facevo le trecce e ora si sposava. Ma né io né Vittorio siamo stati invitati al matrimonio. Niente cerimonia, niente cena, neanche un semplice «grazie». Serena ha detto che era «una cosa familiare» e che sarebbero stati «in pochi». Quei pochi in cui non c’eravamo né io né mio figlio. Lui, che per oltre dieci anni è stato suo padre in tutto tranne che sulla carta.
E indovina chi c’era al matrimonio? Il padre biologico. Quello che si è fatto vedere un paio di volte in tutta la vita di Ginevra. Quello che non ha mai dato un euro in più del dovuto, che neanche è venuto alla sua festa di diploma. Lui era «l’ospite d’onore». E Vittorio? Vittorio è rimasto a casa. L’ho visto fingere che andasse tutto bene. Sorridere a Serena e dire «non fa niente». Ma io, sua madre, sapevo quanto gli facesse male. Eppure non ha protestato, non ha chiesto spiegazioni. Ha taciuto. Perché l’amava.
Poi è successo quello che per me è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Ho ereditato un appartamento da mia cugina. Niente di che, ma in una buona zona di Milano. L’ho affittato per integrare la mia pensione. E un giorno Serena mi chiama: Ginevra e suo marito cercano casa, magari potrei regalarglielo? Non affittarlo, non prestarglielo — proprio «darglielo». Così, senza motivo. Come una madre farebbe con una figlia.
Non ce l’ho fatta:
«E io, Serena? Al matrimonio non mi avete invitata — allora ero una estranea. Ma l’appartamento invece divento famiglia?»
Si è imbarazzata, ha balbettato che in quel periodo era tutto un caos, che «è successo così», che «tutti si sono offesi». Ora però, diceva, c’era la possibilità di aiutare.
Ma non posso. Non voglio. Non ho intenzione di cacciare degli inquilini onesti, rinunciare a un guadagno e fare un regalo a chi mi considera parente solo quando gli conviene.
Sì, forse sembrerà meschino. Qualcuno dirà: «poco importa, ormai è grande, ha la sua vita». Ma la vita dovrebbe avere memoria. E gratitudine. Almeno un po’.
Non sono arrabbiata. Ho solo dolore. Per mio figlio, che ha dato anima, cuore e anni della sua vita a una ragazza che poi l’ha cancellato dal suo giorno più importante. Per me, che ho creduto in qualcosa che non esisteva. Per il fatto che in casa mi chiamava «nonna», e poi ha dimenticato persino come mi chiamo.
Ora lo so: non siamo famiglia per lei. Né io né Vittorio. Famiglia sono quelli che vedi negli inviti al matrimonio. Gli altri? Solo «quando serve».
E sai una cosa? Non porto rancore. Ma non ho intenzione di regalarmi di nuovo.