Non avrei mai immaginato che la mia vecchiaia avrebbe avuto lodore di disinfettante e minestra tiepida.
Mi vedevo a settantanni con le labbra dipinte di rosso, a ballare il valzer la domenica in piazza del Popolo, a civettare con i pensionati del circolo e a sorseggiare un caffè con i cornetti mentre discutevo di politica o di calcio.
Invece no.
La realtà mi ha cacciata in una casa di riposo chiamata Orizzonti Sereni, che suona poetico ma ha più porte chiuse di un carcere.
Mio figlio mi ci portò un martedì, subito dopo pranzo.
Mamma, qui starai meglio mi disse con quella vocina da agnellino pentito che usa quando sta per fare qualcosa di terribile. Avrai compagnia, assistenza medica, attività ricreative
Ah, perfetto gli risposi. Allora lasciami anche la tua carta di credito, già che ci siamo, e mi prenoto una crociera ricreativa.
Non replicò. Mi diede un bacio veloce, il tipo di bacio che si dà quando si vuole scappare prima di sentirsi in colpa, e se ne andò.
Io rimasi a fissare il soffitto bianco, con quellodore di candeggina che si attacca alla pelle, pensando che se quello era il meglio per me, preferivo il peggio.
I primi giorni furono un disastro. Non riuscivo a dormire: una delle mie compagne, Loredana, russava come se avesse un trattore nel petto; laltra, Graziella, nascondeva le calze di tutti per vedere se qualcuno le cerca, come fosse un esperimento psicologico.
Ma mi adattai. Noi anziani siamo sottovalutati, e non sanno quanto siamo resilienti quando non cè altra scelta.
Faccio ginnastica dolce (anche se sembro un origami umano malriuscito), gioco a tombola tre volte alla settimana e, tra laltro, ho fatto amicizia con un signore molto simpatico, don Vittorio, che mi chiede in matrimonio ogni giorno.
Signora, noi due faremmo una bella coppia mi dice con un fiore di plastica in mano.
Certo, Vittorio, ma prima ricordati come mi chiamo gli rispondo sempre.
Lui ride. Io pure. In fondo, la passo meglio di quanto credessi.
Finché una domenica, mio figlio apparve allimprovviso. Aveva quel sorriso sospetto che conosco da quando aveva cinque anni: il sorriso da mamma, ho bisogno di qualcosa.
Maaaaammaaa! disse, allungando la parola come quando voleva un giocattolo.
Dimmi, cosa hai combinato stavolta? gli chiesi, incrociando le braccia.
Niente, mamma. È che mi sposo.
Lo fissai con un sopracciglio alzato.
Davvero? Che sorpresa! Non sapevo ci fosse qualcuno così coraggioso.
Rise, a disagio. Io no.
Be, mamma, visto che i matrimoni costano pensavo se potessi darmi una mano.
Una mano? Se mi hai cacciato di casa e mi hai infilata qui perché dicevi che non cera spazio! E ora vuoi che ti paghi il ricevimento?
Mi guardò con faccia da cagnolino abbandonato. Io lo guardai con quella di una madre che ha già visto troppi cagnolini e sa che rosicchiano sempre la scarpa sbagliata.
Fammi capire continuai. Mi lasci qui, circondata da nonni che litigano per il telecomando, e ora vuoi i miei soldi per mangiare sushi al tuo matrimonio.
Non è sushi, mamma, è un salone elegante.
Elegante un corno. Perché non vi sposate qui? Ti presto le mie amiche della tombola come damigelle e mettiamo don Vittorio a fare il prete. Sa persino dire sì, lo voglio!
Diventò rosso come un pomodoro maturo.
Mamma, lo dico sul serio.
Anchio replicai. E se volete festa, fate una a sacchetto: ogni invitato porta il suo tupperware e tutti contenti.
Si prese la testa tra le mani.
Non posso credere che non mi voglia aiutare.
Oh no, caro risposi. Ho già aiutato abbastanza: ti ho dato la vita, ti ho cambiato i pannolini, ti ho consolato quando piangevi per la tua prima ragazza, e ho persino firmato il prestito per la macchina. Il mio contratto da madre finanziatrice è scaduto.
Rimase in silenzio. Linfermiera, che passava proprio nel corridoio, mi strizzò locchio. Credo che tutte le madri della casa di riposo mi avrebbero applaudito.
Alla fine, non gli diedi i soldi. Ma qualcosa di meglio: un consiglio, di quelli che valgono più di un assegno.
Ascoltami bene, figlio. Per sposarsi servono tre cose: amore, pazienza e voglia di condividere la vita. Tutto il resto il salone, la torta, i fiori si paga a rate. E quelle rate non le pagherò io.
Sospirò, mi baciò sulla fronte e se ne andò a testa bassa.
Io rimasi a guardare fuori dalla finestra della sala da pranzo, con un sorriso. Perché capii che ho ancora qualcosa da dare: non soldi, ma saggezza.
Quella sera, don Vittorio mi chiese di nuovo in matrimonio.
Che ne dice, signora? Ci sposiamo e facciamo festa in sala da pranzo?
Solo se prometti di non russare la prima notte risposi.
Ridemmo insieme.
E mentre la casa di riposo si spegneva, con il suo odore di minestra e nostalgia, pensai che forse qui non sto così male. Sono ancora utile, ancora insegno, ancora viva.
E quando verrà il giorno del matrimonio di mio figlio se mi inviterà, ovvio, ho intenzione di presentarmi vestita di rosso, con il bastone più luccicante del posto, e brindare con le mie amiche della tombola.
Perché, anche se mi ha lasciata in questo posto, ho ancora qualcosa che lui non ha: esperienza e senso dellumorismo.






