Mio marito e la sua famiglia mi hanno cacciata fuori con il nostro bambino sotto la pioggia, ma sono salita più in alto di quanto avessero mai immaginato

Mia moglie e la sua famiglia mi cacciarono con il nostro neonato sotto una pioggia a catinelle, ma ne uscii più alto di quanto avessero mai immaginato.

La pioggia scrosciava a dirotto mentre stavo sui gradini di pietra della villa Bianchi, stringendo al petto la piccola Livia. Le braccia mi erano intorpidite, le gambe tremavano. Ma era il cuore, spezzato e umiliato, a quasi farmi cadere in ginocchio. Dietro di me, le grandi porte di mogano sbatterono chiuse con violenza.

Poco prima, Niccolò, mio marito e figlio di una delle famiglie più potenti di Milano, era accanto ai suoi freddi genitori quando mi voltò le spalle.

«Hai macchiato il nostro nome», sussurrò sua madre. «Questo bambino non rientrava nei nostri piani».

Niccolò non osava guardarmi negli occhi. «È finita, Clara. Ti spediremo le cose più tardi. Vai via».

Non riuscii a parlare. Il fuoco bruciava nella gola. Stringei più forte il cappotto attorno a Livia. Lei lanciò un pianto lieve e la cullai delicatamente. «Stai calma, piccola. Ti ho qui. Staremo bene».

Uscii dal portico nella tempesta, senza ombrello, senza borsa, senza casa. Nessuno aveva nemmeno chiamato un taxi. Sapevo che mi osservavano dalle finestre mentre scomparivo sotto il diluvio.

Passai settimane nei rifugi: cantine di chiese, autobus notturni. Vendei quel poco che mi rimaneva le mie collane, il cappotto firmato. Conservo fino allultimo lanello di matrimonio.

Suonavo il violino nei corridoi della metropolitana per guadagnarmi qualche moneta. Quel vecchio violino, quello della mia infanzia, era lunica cosa rimasta della vita precedente. Con esso riuscivo a mettere da parte qualcosa per Livia, anche se a stento. Non ho mai chiesto lelemosina, nemmeno una volta.

Alla fine trovai un piccolo studio fatiscente sopra una drogheria a San Lorenzo, a Roma. La padrona di casa, la signora Caruso, era una ex infermiera dal sorriso gentile. Visse qualcosa in me forse forza, forse disperazione e mi offrì uno sconto sullaffitto se lavessi aiutata a gestire il negozio.

Accettai.

Di giorno gestivo la cassa, di notte dipingevo con pennelli di seconda mano e resti di vernice per interni. Livia dormiva in un cesto di panni sporchi accanto a me, con le manine arrotolate come conchiglie sotto il mento.

Non era molto, ma era nostro.

E ogni volta che Livia sorrideva nel sonno, ricordavo per chi stavo lottando.

Passarono tre anni.

Un sabato, al mercato del sabato a Trastevere, tutto cambiò.

Allestii un piccolo banco: una tavola pieghevole e alcuni tele legate con una corda. Non speravo di vendere molto, solo di attirare qualche sguardo.

Quello sguardo fu di Maddalena Serra, curatrice di una prestigiosa galleria in via del Corso. Si fermò davanti a una delle mie opere una donna sotto la pioggia con un bambino in braccio e la osservò a lungo.

«È tua?» mi chiese.

Annuii, nervoso.

«È straordinaria», sussurrò. «Così cruda, così reale».

Senza accorgermene, ne acquistò tre e mi invitò a partecipare a una mostra collettiva il mese successivo.

Quasi la rifiutai non avevo nessuno che si prendesse cura di Livia né vestiti per una mostra darte ma la signora Caruso non me lo permise. Mi prestò un abito nero e si occupò di Livia.

Quella sera cambiò la mia vita.

La mia storia marito abbandonato, padre single, artista che sopravvive contro ogni pronostico si diffuse rapidamente nella scena artistica romana. La mostra fu esaurita. Iniziai a ricevere commissioni, interviste, apparizioni in televisione e articoli di riviste.

Non mi compiacqui. Non cercai vendetta. Ma non dimenticai.

Cinque anni dopo che i Bianchi mi cacciarono sotto la pioggia, la Fondazione Culturale Bianchi mi invitò a collaborare a una esposizione.

Non sapevano chi fossi, in realtà nessuno lo sapeva.

Il loro consiglio di amministrazione aveva cambiato volto dopo la morte del padre di Niccolò. La fondazione attraversava momenti difficili e sperava che un artista emergente potesse ridare lustro alla loro immagine.

Entrai nella sala riunioni con un sorriso sereno. Livia, ormai di sette anni, era al mio fianco con un vestito giallo. Niccolò era già seduto.

Sembrava più piccolo, stanco. Quando mi vide, rimase paralizzato.

«Clara?», balbettò.

«Signora Clara Rossi», annunciò lassistente. «La nostra artista invitata per la gala di questanno».

Niccolò si alzò goffamente. «Non non ne avevo idea»

«No», risposi. «Non lo volevi».

Si alzarono dei mormorii attorno al tavolo. Sua madre, ora su sedia a rotelle, sembrava sconcertata.

Posai il mio portfolio sul tavolo. «Questa esposizione si chiama Resiliente. È un viaggio visivo attraverso il tradimento, la maternità e la rinascita».

Il silenzio calò nella stanza.

«E», aggiunsi, «ogni euro raccolto servirà a finanziare abitazioni e servizi di emergenza per madri single e bambini in difficoltà».

Nessuno obiettò. Alcuni sembravano commossi.

Una donna dallaltra parte del tavolo si chinò. «Signora Rossi, il suo lavoro è prezioso. Ma data la sua storia personale con la famiglia Bianchi, potrebbe incontrare difficoltà?»

La guardai negli occhi. «Non cè più storia. Ora porto solo leredità di mia figlia».

Loro annuirono.

Niccolò aprì bocca. «Clara su Livia»

«Sta facendo benissimo», dissi. «Ora suona il pianoforte. Sa perfettamente chi le è stato accanto».

Lui guardò in basso.

Un mese dopo, Resiliente fu inaugurata in una antica chiesa di Trastevere. Il pezzo centrale, intitolato La Porta, era unenorme tela di una donna in mezzo alla tempesta, che stringe un bambino alle porte di una dimora. I suoi occhi ardevano di dolore e determinazione. Un raggio dorato seguiva il suo braccio verso lorizzonte.

I critici lo chiamarono un trionfo.

Lultima notte arrivò Niccolò.

Sembrava più anziano, logoro, solo. Rimase davanti a La Porta per lungo tempo.

Poi si girò e mi vide.

Indossava velluto nero, una coppa di vino in mano, tranquillo, completo.

«Non ho mai voluto ferirti», disse.

«Ti credo», risposi. «Ma lhai lasciata scorrere».

Si avvicinò. «I miei genitori controllavano tutto»

Alzai la mano. «No. Avevi scelta. Hai chiuso la porta».

Sembrava sul punto di piangere. «Cè qualcosa che posso fare ora?»

«Per me non», dissi. «Forse Livia vorrà incontrarti un giorno. Ma è sua la decisione».

Deglutì. «È qui?»

«È nella sua lezione di Chopin. Suona magnificamente».

Lui annuì. «Dille che mi dispiace».

«Forse», sussurrai a bassa voce. «Un giorno».

Poi mi voltai e mi allontanai.

Cinque anni dopo, aprii Il Rifugio Resiliente, unorganizzazione no profit che offre alloggi, assistenza allinfanzia e terapia artistica per madri single.

Non lo feci per vendetta.

Lo feci perché nessuna donna che tenga in braccio il suo bambino sotto la pioggia debba sentirsi così sola come mi sentii una volta.

Una notte aiutai una giovane madre a sistemarsi in una stanza calda, con lenzuola pulite e un piatto di cibo caldo. Poi entrai nello spazio comune.

Livia, ora dodici anni, suonava il pianoforte. La sua risata riempiva la sala, mescolandosi alle risatine dei bambini vicini.

Rimasi in piedi accanto alla finestra, osservando il sole calare allorizzonte.

E mi sussurrai, con un sorriso:

Non mi spezzarono.
Mi diedero spazio per rialzarmi.

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