La pioggia scrosciava mentre rimanevo in piedi sui gradini di pietra della tenuta dei Bianchi, stringendo al petto la mia bambina appena nata. Le braccia mi erano intorpidite, le gambe mi tremavano. Ma fu il cuore, spezzato e umiliato, a farmi quasi cadere in ginocchio.
Dietro di me, il grande portone di mogano si chiuse con un colpo secco.
Solo pochi istanti prima, Matteo, mio marito e figlio di una delle famiglie più influenti di Milano, era lì accanto ai suoi genitori gelidi mentre mi voltavano le spalle.
“Hai disonorato il nostro nome,” sussurrò sua madre. “Questa bambina non era nei piani.”
Matteo non riusciva neanche a guardarmi negli occhi. “È finita, Giulia. Ti manderemo le tue cose più tardi. Ora… vattene.”
Non riuscivo a parlare. La gola mi bruciava. Serrai più forte il cappotto attorno ad Aurora, che emise un lieve pianto. “Tranquilla, tesoro. Ci sono io. Andrà tutto bene.”
Scendetti dal portico sotto la tempesta. Senza ombrello. Senza borsa. Senza una casa. Non avevano neanche chiamato un taxi. Sapevo che mi osservavano dalle finestre mentre scomparivo nel diluvio.
Passai settimane nei dormitori: scantinati di chiese, autobus che funzionavano tutta la notte. Vendetti quel poco che mi restava. I miei gioielli. Il mio cappotto firmato. Ma tenni la mia fede nuziale fino allultimo.
Suonai il violino nelle stazioni della metropolitana per racimolare qualche euro. Quel vecchio violinoquello della mia infanziaera lunica cosa rimasta della mia vita passata. Con quello, riuscivo a sfamare Aurora, anche se a malapena.
Ma non chiesi mai lelemosina. Nemmeno una volta.
Finalmente, trovai un piccolo e malandato monolocale sopra un alimentari a Roma. La padrona di casa, la signora Moretti, unex infermiera dagli occhi gentili, vide qualcosa in meforza, o forse disperazionee mi offrì uno sconto sullaffitto se lavessi aiutata in negozio.
Accettai.
Di giorno, facevo la cassiera. Di notte, dipingevo, usando pennelli di seconda mano e avanzi di vernice. Aurora dormiva in un cesto di biancheria accanto a me, con le manine strette come conchiglie sotto la guancia.
Non era molto. Ma era nostro.
E ogni volta che Aurora sorrideva nel sonno, ricordavo per chi stavo lottando.
Passarono tre anni.
Poi, un sabato, in un mercatino di Roma, tutto cambiò.
Avevo allestito un banchetto minuscolo, solo un tavolino pieghevole e qualche tela legata con lo spago. Non mi aspettavo di vendere molto. Speravo solo che qualcuno si fermasse a guardare.
Quel qualcuno fu Francesca Riva, curatrice di una prestigiosa galleria nel centro storico. Si fermò davanti a una delle mie opereun dipinto di una donna sotto la pioggia con un bambino in braccioe la fissò a lungo.
“Sono tuoi?” chiese.
Annuii, nervosa.
“Sono straordinari,” sussurrò. “Così crudi. Così veri.”
Prima che potessi rendermene conto, ne aveva già acquistati tre e mi invitò a una mostra collettiva il mese dopo.
Stavo per rifiutarenon avevo nessuno a cui lasciare Aurora né abiti adattima la signora Moretti non mi permise di rinunciare. Mi prestò un vestito nero semplice e si prese cura di Aurora.
Quella sera mi cambiò la vita.
La mia storiamoglie abbandonata, madre single, artista che resisteva contro ogni previsionesi diffuse rapidamente nella scena artistica romana. La mia mostra andò esaurita. Iniziarono a piovere commissioni. Poi interviste. Spot televisivi. Articoli su riviste.
Non mi compiacqui. Non cercai vendetta.
Ma non dimenticai.
Cinque anni dopo che i Bianchi mi avevano cacciata sotto la pioggia, la Fondazione Culturale Bianchi mi invitò a collaborare a una mostra.
Non sapevano chi fossi davvero.
Il consiglio direttivo era cambiato dopo la morte del padre di Matteo. La fondazione stava attraversando un momento difficile e sperava che un artista emergente potesse rilanciarne limmagine.
Entrai nella sala riunioni con un completo blu e un sorriso sereno. Aurora, ormai settenne, era fiera al mio fianco in un vestito giallo.
Matteo era già seduto.
Sembrava… più piccolo. Stanco. Quando mi vide, si irrigidì.
“Giulia?” balbettò.
“Signora Giulia Fioravanti,” annunciò lassistente. “La nostra artista ospite per la serata di gala.”
Matteo si alzò goffamente. “Non… non avevo idea…”
“No,” dissi. “Non lavevi.”
Mormorii riempirono la stanza. Sua madre, ora in sedia a rotelle, sembrava sconvolta.
Posai la mia cartella sul tavolo. “Questa mostra si chiama Resilienza. È un viaggio visivo attraverso il tradimento, la maternità e la rinascita.”
La stanza rimase in silenzio.
“E,” aggiunsi, “ogni euro raccolto finanzierà alloggi e servizi demergenza per madri single e bambini in difficoltà.”
Nessuno obiettò. Alcuni sembravano commossi.
Una donna dallaltro lato del tavolo si sporse. “Signora Fioravanti, il suo lavoro è prezioso. Ma vista la sua storia con la famiglia Bianchi, non le creerà conflitto?”
La guardai negli occhi. “Non cè storia. Ora porto solo un lascito: quello di mia figlia.”
Annuirono.
Matteo aprì la bocca. “Giulia… riguardo ad Aurora…”
“Sta benissimo,” dissi. “Ora suona il piano. E sa benissimo chi cè stato per lei.”
Lui abbassò lo sguardo.
Un mese dopo, Resilienza fu inaugurata in unex chiesa del centro. Lopera principale, intitolata La Porta, era un enorme dipinto di una donna nella tempesta, con un bambino tra le braccia, davanti al portone di una villa. I suoi occhi bruciavano di dolore e determinazione. Una striscia di luce dorata seguiva il suo polso fino allorizzonte.
La critica la definì un trionfo.
Lultima sera arrivò Matteo.
Sembrava più vecchio. Logoro. Solo.
Rimase davanti a La Porta a lungo.
Poi si girò e mi vide.
Indossavo un vestito di velluto nero. Un bicchiere di vino in mano. Calma. Completa.
“Non volevo farti del male,” disse.
“Lo credo,” risposi. “Ma lo hai permesso.”
Si avvicinò. “I miei genitori controllavano tutto…”
Alzai una mano. “No. Avevi una scelta. E hai chiuso la porta.”
Sembrava sul punto di piangere. “Cè qualcosa che posso fare ora?”
“Per me no,” dissi. “Forse Aurora vorrà conoscerti un giorno. Ma sarà sua la scelta.”
Deglutì con difficoltà. “È qui?”
“È a lezione di Chopin. Suona magnificamente.”
Annuì. “Dille che mi dispiace.”
“Forse,” sussurrai. “Un giorno.”
Poi mi voltai e me ne andai.
Cinque anni dopo, fondai Il Rifugio della Resilienza, unorganizzazione che offre alloggio, asilo e arte-terapia per madri single.
Non lo feci per vendetta.
Lo feci perché nessuna donna con un bambino tra le braccia sotto la pioggia si sentisse mai sola come mi sentii io.
Una