**Diario Personale**
La pioggia cadeva a dirotto mentre ero in piedi sui gradini di pietra della tenuta dei Bianchi, stringendo al petto la mia bambina appena nata. Le braccia mi erano intorpidite, le gambe tremavano. Ma fu il cuore, spezzato e umiliato, che quasi mi fece cadere in ginocchio.
Dietro di me, lenorme porta di mogano si chiuse con un tonfo sordo.
Solo pochi istanti prima, Luca, mio marito e figlio di una delle famiglie più potenti di Milano, era accanto ai suoi gelidi genitori mentre mi voltavano le spalle.
«Hai disonorato il nostro nome», sussurrò sua madre. «Questa bambina non faceva parte dei piani.»
Luca non riusciva neanche a guardarmi negli occhi. «È finita, Beatrice. Ti manderemo le tue cose più tardi. Adesso vattene.»
Non riuscivo a parlare. La gola mi bruciava. Stringevo il cappotto più forte attorno a Viola. Lei emise un lieve pianto e io la cullai dolcemente. «Tranquilla, tesoro. Ci sarò io. Andrà tutto bene.»
Uscii dalla veranda sotto la tempesta. Senza ombrello. Senza borsa. Senza una casa. Non avevano nemmeno chiamato un taxi. Sapevo che mi stavano osservando dalle finestre mentre scomparivo nella pioggia battente.
Passai settimane in dormitori: scantinati di chiese, autobus che circolavano tutta la notte. Vendetti quel poco che mi restava. I miei gioielli. Il mio cappotto di marca. Ma tenni la mia fede nuziale fino allultimo.
Suonavo il violino nelle stazioni della metropolitana per racimolare qualche euro. Quel vecchio violinoquello della mia infanziaera tutto ciò che mi restava della vita passata. Con quello, riuscivo a sfamare Viola, anche se a malapena.
Ma non chiesi mai lelemosina. Neppure una volta.
Finalmente trovai un piccolo e malconcio monolocale sopra un alimentari a Roma. La padrona di casa, la signora Martini, uninfermiera in pensione dallo sguardo gentile, vide qualcosa in meforza, forse disperazionee mi offrì uno sconto sullaffitto se lavessi aiutata in negozio.
Dissi di sì.
Di giorno, stavo alla cassa. Di notte, dipingevo, usando pennelli di seconda mano e avanzi di vernice. Viola dormiva in un cesto della biancheria accanto a me, con le manine strette come conchiglie sotto la guancia.
Non era molto. Ma era nostro.
E ogni volta che Viola sorrideva nel sonno, ricordavo per chi combattevo.
Passarono tre anni.
Poi, un sabato, in un mercatino a Torino, tutto cambiò.
Avevo allestito un banchettosolo un tavolino pieghevole e qualche tela legata con lo spago. Non mi aspettavo di vendere molto. Speravo solo che qualcuno si fermasse a guardare.
Quel qualcuno fu Elena Fiore, curatrice di una prestigiosa galleria a Firenze. Si fermò davanti a una delle mie opereun dipinto di una donna sotto la pioggia con un bambino in braccioe la osservò a lungo.
«Sono tuoi?» chiese.
Annuii, nervosa.
«Sono straordinari», sussurrò. «Così crudi. Così veri.»
Prima che me ne rendessi conto, ne aveva comprati tre e mi invitò a una collettiva il mese seguente.
Stavo per rifiutarenon avevo nessuno che badasse a Viola né vestiti adattima la signora Martini non mi lasciò dire no. Mi prestò un abito nero e si offrì di tenere Viola lei stessa.
Quella sera cambiò la mia vita.
La mia storiamoglie abbandonata, madre single, artista che sopravvive contro ogni pronosticosi diffuse rapidamente nellambiente artistico italiano. La mia mostra andò sold out. Iniziai a ricevere commissioni. Poi interviste. Spot televisivi. Articoli sulle riviste.
Non mi godei la rivincita. Non cercai vendetta.
Ma non dimenticai.
Cinque anni dopo che i Bianchi mi avevano cacciata sotto la pioggia, la Fondazione Culturale Bianchi mi invitò a collaborare a una mostra.
Non sapevano chi fossi davvero.
Il loro consiglio aveva cambiato guida dopo la morte del padre di Luca. La fondazione attraversava un momento difficile e sperava che un artista emergente potesse ravvivare la loro immagine.
Entrai nella sala riunioni con un tailleur blu notte e un sorriso sereno. Viola, ormai settenne, era fiera al mio fianco con un vestitino giallo.
Luca era già seduto.
Sembrava più piccolo. Stanco. Quando mi vide, si irrigidì.
«Beatrice?» balbettò.
«La signora Beatrice Rossetti», annunciò lassistente. «La nostra artista ospite per la serata di gala.»
Luca si alzò goffamente. «Non non lo sapevo»
«No», dissi. «Infatti.»
Mormorii si alzarono intorno al tavolo. Sua madre, ora in sedia a rotelle, sembrava sconvolta.
Posai il mio portafoglio sul tavolo. «Questa mostra si chiama “Resilienza”. È un viaggio visivo attraverso il tradimento, la maternità e la rinascita.»
La stanza cadde nel silenzio.
«E», aggiunsi, «ogni euro raccolto finanzierà case rifugio e servizi demergenza per madri single e bambini in difficoltà.»
Nessuno obiettò. Alcuni sembravano commossi.
Una donna dallaltro lato del tavolo si sporse. «Signora Rossetti, il suo lavoro è prezioso. Ma data la sua storia con la famiglia Bianchi, non le creerà conflitti?»
La guardai negli occhi. «Non cè storia. Ora porto avanti solo uneredità: quella di mia figlia.»
Annuiro.
Luca aprì la bocca. «Beatrice riguardo a Viola»
«Sta benissimo», dissi. «Suona già il pianoforte. E sa benissimo chi cè stato per lei.»
Lui abbassò lo sguardo.
Un mese dopo, “Resilienza” fu inaugurata in unex cattedrale a Bologna. Lopera centrale, intitolata “La Porta”, era un enorme dipinto di una donna nella tempesta, con un bambino tra le braccia, davanti a una villa. I suoi occhi bruciavano di dolore e determinazione. Un filo di luce dorata seguiva il suo polso fino allorizzonte.
I critici la definirono un trionfo.
Lultima sera arrivò Luca.
Sembrava invecchiato. Consumato. Solo.
Rimase davanti a “La Porta” per uneternità.
Poi si voltò e mi vide.
Indossavo un abito di velluto nero. Un bicchiere di vino in mano. Calma. Completa.
«Non volevo farti del male», disse.
«Ti credo», risposi. «Ma hai permesso che accadesse.»
Si avvicinò. «I miei genitori controllavano tutto»
Alzai una mano. «No. Avevi una scelta. E hai chiuso la porta.»
Sembrava sul punto di piangere. «Cè qualcosa che posso fare ora?»
«Per me no», dissi. «Forse Viola vorrà conoscerti, un giorno. Ma sarà lei a deciderlo.»
Deglutì a fatica. «È qui?»
«È a lezione di Chopin. Suona divinamente.»
Annui. «Digli che mi dispiace.»
«Forse», sussurrai. «Un giorno.»
Poi mi voltai e me ne andai.
Cinque anni dopo, fondai “Il Rifugio della Resilienza”, unorganizzazione che offre alloggio