Ricordo che il mio marito è stato il mio pilastro fino al giorno in cui il nostro figlio compì tre anni, quando poi sparì. Mi sposai a diciotto anni, in un piccolo borgo della Campania, e lui aveva venti anni in più di me. La sua maturità mi affascinava; sembrava già un uomo di mondo. Dopo un anno nacque nostra figlia, Cinzia, e poco dopo il maschio, Matteo. Lui mi sosteneva in ogni cosa; grazie al suo aiuto riuscii a completare gli studi e a rimettermi in piedi.
Quando Matteo aveva tre anni, il marito fece le valigie e lasciò per sempre la nostra casa. Piansi a lungo, perché non riuscivo a immaginare di sopravvivere da sola con due bambini. Non avevo nessuno a cui affidare i piccoli, così non potei nemmeno cercare lavoro. Gli alimenti erano miseri, pochi euro al mese, e mi chiedevo come fare a tirare avanti. Lottai con tutte le mie forze, finché il bambino più piccolo non trovò posto allasilo e io trovai un lavoro in una sartoria di Milano.
Fu allora che il marito ricomparve, chiedendo perdono e desiderando tornare a casa. Gli dissi freddamente: «Abbiamo imparato a vivere senza di te. Non ti sei mai preoccupato dei figli, e ora ti scusi? Vai via e non tornare più nella nostra vita». Un mese dopo avviò una causa per ottenere la custodia dei bambini, ma il giudice decise a mio favore e i figli rimasero con me.
Sei mesi più tardi scoprii il vero motivo del suo tentativo di riconciliazione: suo padre aveva inserito nel testamento uneredità per i nostri figli, ma il denaro non servì a nulla. Ora tutto è finito, ma porto ancora nel cuore il ricordo di quelle notti in cui condividevamo un solo pezzo di pane, affamati, per far sì che i miei bambini non andassero a letto con la fame.





