Mi chiamo Elisa, e sono sposata da sei anni con il mio adorato marito, Matteo Rossi. Un uomo tuttofare, con il cuore d’oro e le mani d’oro… peccato che quell’oro vada a finire in tasca a chiunque tranne che alla sua famiglia.
Matteo ha una parentela sterminata. La madre, il fratello, due zie, tre cugine e persino dei lontanissimi parenti che non sapevo esistessero. E tutti, ma proprio tutti, hanno un’emergenza che solo lui può risolvere. Non domani, non in settimana, no: subito. Di notte. Nel giorno del nostro anniversario o quando nostro figlio ha la febbre.
Prima del matrimonio sapevo che era legato alla sua famiglia, ma la vera portata della sua “devozione parentale” l’ho scoperta solo dopo il trasloco nella sua città natale, Verona. Avevamo ereditato un appartamento dalla nonna, modesto ma tutto nostro. I parenti gli avevano promesso aiuto per trovare lavoro, così, senza pensarci troppo, mi sono trasferita con lui. Due mesi dopo ci siamo sposati.
All’inizio pensavo che tutte quelle corse a destra e a sinistra fossero per via dei preparativi del matrimonio o della sistemazione della casa. Ma poi è andata solo peggiorando. Matteo passava mezza giornata a zappare l’orto di sua madre, poi correva a Vicenza per aiutare il fratello a rifare il tetto e, a notte fonda, portava lo zio in farmacia. Al mattino crollava esausto, lamentandosi della stanchezza, e io cercavo di coccolarlo un po’ — colazione al letto, silenzio, tranquillità. Ma appena riprendeva fiato… squillava il telefono. E via, di nuovo in macchina.
Ho resistito. Ho taciuto. Speravo che sarebbe passato, che avrebbe capito: ora ha una famiglia, una moglie, una casa che pure ha le sue esigenze. Ma niente. Tutta la sua energia finiva là fuori. Io mi arrangiavo da sola con le pulizie, con la ristrutturazione, con i mobili, con i problemi domestici. Ho attaccato la carta da parati da sola. Spostato gli armadi da sola. Il tecnico per la lavastoviglie l’ho chiamato io. Perché Matteo non aveva tempo.
Non ho fatto scenate. Gli parlavo con calma. Gli ricordavo che ero sua moglie, non una coinquilina. Lui annuiva, mi baciava le mani, mi chiedeva di capire e quasi si commuoveva — perché, sai, non poteva dire di no ai parenti.
Quando sono rimasta incinta, pensavo che tutto sarebbe cambiato. Finalmente ero importante. Lui mi coccolava, portava la spesa, cucinava, mi accompagnava dal medico. Eravamo più uniti che mai. Ma un mese dopo… tutto come prima. Appena passata la nausea, eccolo di nuovo a correre dallo zio, dalla cugina, dalla mamma perché il rubinetto perde e solo Matteo può aggiustarlo.
“Ora li aiuto io,” si giustificava. “E quando avremo bisogno, saranno loro a darci una mano.”
Ma in tutti questi anni, nessuno ci ha mai aiutato. Quando è nato nostro figlio, Luca, per il primo mese Matteo si è impegnato. Poi è ricominciato a sparire. Mi svegliavo e addormentavo da sola. Portavo io il passeggino al parco. Lui era dal cantiere dello zio, al supermercato per la zia, dalla sorella a spostare l’armadio. Lo chiamavano a qualsiasi ora, e lui partiva. La lavatrice si è rotta? Il cugino elettricista “non ha avuto tempo”. Ho dovuto chiamare un tecnico a mie spese.
E sapete qual è la parte più umiliante? Quando si riuniscono tutti a tavola, Matteo viene elogiato: “Che bravo ragazzo! Un tesoro! Sa fare di tutto!” E io sorrido tirata, cercando di non digrignare i denti. Perché loro vedono un eroe, io invece vivo con un uomo che non ha né tempo né energie per me.
Ho provato a parlargli. Lui scrolla le spalle:
“I tuoi problemi te li inventi. Hai tutto, no? Cosa ti manca?”
Mi manca una cosa semplice: mio marito. Vorrei che stesse a casa, che vedesse crescere suo figlio. Vorrei che anche noi avessimo delle “emergenze” a cui non potesse dire “dopo”. Vorrei non sentirmi un’ombra nella vita dell’uomo che amo.
A volte mi chiedo se, per lui, io sia solo la donna che gli scalda la cena e lo saluta in silenzio prima dell’ennesima missione di salvataggio. E a quanto pare, per lui va bene così.
Ma per me… non più.