Mi svegliavo prima che suonasse la sveglia, ancor prima che il telefono iniziasse a vibrare. A quarantadue anni il mio corpo si alzava da solo alle sei del mattino, anche nei weekend. Restavo sdraiato a fissare il rettangolo opaco della finestra, dietro il quale il cielo invernale grigio sovrastava i condomini a nove piani, e cercavo di sentire i rumori della casa.
Ledificio viveva di un brusio abituale, un po stanco. Da qualche parte si sbatté una porta, qualcuno sfregò i piedi sul corridoio, al piano di sopra un pallone da bambino rimbalzava sul pavimento. Le tubature nella parete sospiravano e brontolavano. Era familiare come il mio respiro. Conoscevo chi, a che ora, andava al lavoro, chi accendeva la musica, chi litigava con il cane del cortile.
La protagonista era Nadia Bianchi. Abitava in un bilocale al quinto piano, nello stesso ingresso dove aveva trascorso gli anni della scuola. Prima viveva con i genitori, poi con il marito Marco e il figlio Luca, ora era quasi sola. Marco era sparito tre anni fa per una collega del reparto contabilità, Luca studiava in un istituto tecnico del quartiere e alternava notti da me e notti da amici. Lappartamento era vissuto, ma senza eccessi: un vecchio divano, un armadio a muro, una cucina acquistata a rate e qualche piatto ancora non sciacquato nel lavandino.
Nadia era capo infermiera nella clinica comunale. Per arrivare al lavoro bastavano due fermate dautobus o quindici minuti a piedi, se non cera ghiaccio. Le piaceva percorrere al mattino i cortili quasi vuoti, dove uscivano persone in giacche imbottite, con sacchetti e thermos. La cittadina viveva a passo regolare. Tutti si conoscevano, o almeno lo credevano.
Anche in clinica Nadia conosceva tutti. Chi fingeva per un certificato, chi temeva esami aggiuntivi, chi si lamentava del medico, chi non osava chiedere. Sapeva parlare con calma, convincere, talvolta rimproverare con decisione. Le si affidava la gente; quella fiducia le dava un senso di utilità, ma alla sera tornata a casa era esausta, si sedeva al tavolo della cucina, accendeva il bollitore e fissava il cortile scuro dove i lampioni tremolavano.
Le regole in quella città erano semplici: non impicciarsi, non ficcanasare. «Ognuno ha la sua famiglia, si arrangia da solo», mi diceva la nonna. La vicina di sopra tollerava il marito bevitore fino alla morte per infarto. Nel palazzo accanto un uomo urlava contro la madre così forte che tutti sentivano; nessuno chiamava la polizia, era tabù.
Le prime urla oltre il muro li sentii in autunno inoltrato, quando fu già buio verso le cinque. Ero in cucina con una tazza di tè, scorrendo le notizie sul cellulare, quando percepii voci alte dal vicino. Allinizio pensai fosse la televisione; poi una voce femminile stridì:
Silenzio, il bambino dorme!
Il maschile rispose, graffiato, incomprensibile. Poi un colpo sordo, come se qualcosa di pesante si fosse sbattuto contro il muro. Nadia si irrigidì, pose la tazza sul tavolo e trattenne il respiro. Il cuore le batteva più forte. Conosceva quella famiglia solo di vista. Una giovane donna con un bambino di circa cinque anni, un uomo alto e robusto sempre in giacca da lavoro, con la borsa a tracolla. Si erano trasferiti sei mesi prima, avevano scambiato qualche frase sullascensore che si inceppava sempre.
Le urla cessarono altrettanto improvvisamente. Nadia rimase qualche attimo in ascolto, poi provò a tornare alle notizie, ma le parole si confondevano. Nella sua testa riecheggiavano frasi della clinica: «Urla, ma non colpisce», «È colpa sua se ha tirato fuori il bambino», «Altro che». Spense la luce in cucina, si diresse verso la camera, accese la televisione a volume più alto. Era più comodo così; così faceva la maggior parte degli abitanti.
Una settimana dopo incontrò la vicina sul pianerottolo. Stava uscendo con un sacco della spazzatura; il viso pallido, una macchia gialloblu sotto locchio sinistro, come segno di poca dormita. I capelli raccolti in una coda trasandata. Il bambino si aggrappava al cappotto e tirava la zip.
Buongiorno disse Nadia, fermandosi sulla macchia.
Salve rispose la donna, girando lo sguardo.
Nadia sentì la bocca seccare. Voleva chiedere: «È lui?», ma la lingua si impappò. Invece sorrise timidamente al bambino:
Come ti chiami?
Sergio balbettò, nascondendosi dietro la madre.
Siete nuovi qui? domandò Nadia, già sapendo la risposta.
Sì, lestate scorsa siamo venuti rispose la donna con un sorriso forzato. Io sono Ginevra.
Il nome risuonò ovattato, come se fosse avvolto in un velo. Nadia annuì e li lasciò passare. Lodore del cavolo bollito e del detersivo per bucato riempiva il corridoio. Lascensore cigolò, Ginevra entrò con il bambino e scese.
Quella sera le urla ricominciarono, più forti. Prima il maschile, poi il singhiozzo di Ginevra, poi il pianto straziante del bambino. Nadia era sul divano con un libro, ma non leggeva più. Il petto si stringeva, le mani sudavano. Si alzò, si avvicinò al muro e pose lorecchio. Sentì frammenti:
te lavevo detto
Non lho presa
Mentì, stronza
Un colpo sordo. Il bambino strillò, poi il pianto si interruppe bruscamente, come se qualcuno lo avesse coperto con un cuscino o lo avesse trascinato via.
Nadia ritrasse di scatto. Pensò di chiamare la polizia, ma la mano si fermò. E se venissero a chiedere chi avesse chiamato? E se luomo scopresse che era stata lei? Un uomo forte, arrabbiato, pronto a vendicarsi sul corridoio. E io? Solo, con il figlio che non dorme più a casa. E se fosse solo una lite che poi si sarebbe risolta? Il dubbio la tenne immobile.
Camminò nella stanza come un animale in gabbia. Le urla alternavano crescendo e quiete. Alla fine la porta sbatté, i passi delluomo rimasero sul piano inferiore, poi un singhiozzo soffuso, dei fruscii. Nadia non chiamò.
Il giorno dopo al lavoro ascoltava più attenta i pettegli al registro: due infermiere commentavano la percosse di un uomo al vicinato, una giovane infermiera ripeteva che «la vicina è colpevole, la sopporta». Nadia, facendo flebili punture, rimaneva silenziosa.
Di sera chiamò la sorella, che viveva in una zona residenziale dellaltra parte della città, con due figli e un lavoro da commessa.
Qui i vicini iniziò Nadia, la voce tremante. Urla, litigi, il bambino è piccolo.
E allora? rispose la sorella. Cosa farai?
Pensavo di chiamare la polizia.
Non ti immischiare, Nadì disse, stanca. Sei sola. Qui la gente chiama la polizia e poi il figlio della donna finisce nei tribunali per diffamazione. Non ti serve.
Nadia rimase in silenzio. Unondata di impotenza e rabbia le invase il petto. La sorella continuò:
Se lei vuole, se ne va. Non puoi salvare una famiglia che non è la tua.
Rimase a fissare il buio della cucina, i rumori del piano che salivano e scendevano, il condominio che respirava attraverso pareti sottili, come se potesse sentire pensieri altrui: «Non ficcare il naso», «Stai zitto», «Vivi la tua vita».
Le liti dei vicini divennero una costante. Non ogni giorno, ma una volta alla settimana, a volte silenziose, a volte così forti da far vibrare lintero palazzo. Alcuni abitanti alzavano il volume della TV, altri acceleravano il passo sul corridoio, ma nessuno diceva nulla.
Una sera, tornando dal lavoro, incontrai Ginevra al portone. Stava frugando nella borsa per trovare le chiavi, con una sciarpa sul collo e una striscia rossa che spuntava sotto il colletto.
Hai freddo? chiesi, fermandomi accanto a lei.
Così, rispose, ma le labbra tremarono. Ho preso una braccialetta dal giardino, è di nuovo raffreddato.
E tuo marito? sbottò Nadia prima di poter trattenere.
Ginevra si fermò un attimo, poi distolse lo sguardo.
È al turno, rispose secca. Fa i turni di guardia.
Nadia sapeva che era una bugia. La notte precedente aveva sentito la voce delluomo oltre il muro, il rumore dei passi nella hall. Ma rimase in silenzio.
Se serve iniziò, poi si bloccò. Che significava «se serve»? Chiamare? Correre in suo aiuto? Non sapeva più cosa fare.
Grazie disse Ginevra, come se capisse tutto. Poi si affrettò a trovare le chiavi e uscì.
Quella notte un grido stridente la destò. Il cuore balzò. Oltre il muro ricominciò il litigio. Luomo urlava così forte da farsi capire:
Quante volte devo lavorare e tu stare come una regina! Dove sono i soldi?
Non ho preso nulla gridò Ginevra. Forse sei tu a spendere
Il colpo rimbalzò, ne seguì un altro. Il bambino urlò. Nadia non poté più trattenerlo. Preso il cellulare, compose il 112. Le dita tremavano.
Servizio di soccorso, ascolto.
Nel nostro condominio balbettò. I vicini litigano. Il marito picchia la moglie, cè un bambino. Quinto piano, appartamento 34.
Loperatore chiese lindirizzo, il cognome. La voce era stanca ma priva di sarcasmo. Disse che una pattuglia era in arrivo. Nadia ripose il ricettore, sentendo le pareti diventare ancora più sottili, ogni suo respiro udibile dagli altri.
Venticinque minuti dopo le sirene ulularono nel cortile. Passi pesanti risuonarono sul corridoio. Nadia guardò attraverso lo spioncino. Due agenti in divisa sbatterono al portone dellappartamento. Le urla si erano spente, rimaneva solo un singhiozzo.
Aprite, polizia.
La porta cigolò. Il marito apparve nella fessura, il volto arrossato, la mascella serrata.
Che è successo? chiese un agente.
Niente, rispose luomo, di tono asciutto. Abbiamo discusso, è tutto finito.
I vicini hanno segnalato rumori, disse laltro. La moglie è a casa?
Un attimo di silenzio. Poi la voce di Ginevra, flebile:
Sono io.
La sta picchiando? chiese lagente.
No, rispose rapidamente. Ci siamo solo arrabbiati.
Nadia sentì il dolore di quella risposta, più acuto del colpo. Gli agenti annotarono qualcosa, dissero qualcosa, poi se ne andarono. Luomo chiuse la porta con forza.
Un colpo al campanello spezzò il silenzio. Nadia sobbalzò. Guardò di nuovo lo spioncino: era luomo di nuovo, il volto più calmo, gli occhi freddi.
Apri, parliamo disse, fissando lo spioncino.
Nadia trattenne il respiro, girò la serratura. Il cuore batteva, ma decise di non nascondersi più.
Cosa vuoi? chiese, aprendo la porta leggermente.
Sei una eroina? sbuffò, sorridendo amaramente. Polizia, assistenza sociale. Pensavi di non capirne nulla?
Ho chiamato perché sentivo le urla al bambino e il rumore dei pugni sulla moglie replicò Nadia, sorpresa dalla propria fermezza.
Non picchiamo, litighiamo come tutti rispose lui, con un ghigno. Tu, con il tuo figlio che torna tardi dal tecnico, ti credi la salvatrice?
Le parole gli ferirono più di un pugno. Nadia strinse la maniglia della porta.
Se tornerai a picchiare, chiamerò di nuovo la polizia disse. E lo farò finché non smetterà.
Lui si avvicinò, la bocca piena di fumo di sigaretta.
Prova, Nadì sibilò. Hai un figlio, torni a casa tardi. Questo è un piccolo paese, tutti parlano. Vuoi che ti rovinino la vita?
Un brivido percorse Nadia. Luomo si allontanò, chiudendo la porta con un colpo secco.
Il giorno dopo al lavoro la gente mi guardava più a lungo. Al registro qualcuno sussurrò: «Hai sentito, la polizia è venuta al suo piano». La capo infermiera, una donna austera di cinquantanni con i capelli raccolti, mi chiamò nella sua stanza.
Nadia, vieni un attimo disse, chiudendosi la porta.
Mi fece sedere, senza guardarmi negli occhi.
Ho ricevuto una segnalazione dal reparto risorse umane iniziò. Una lamentela che che crei scompiglio a casa tua.
Che scompiglio? mi incrinai. Ho chiamato la polizia perché il marito picchia la moglie.
Capisco sospirò. Ma sei infermiera. La gente ti osserva. Abbiamo già una reputazione fragile, e ogni lamentela è una scusa per tagliare personale. Pensa a cosa può succedere.
Non è una storia mia dissi a bassa voce. Cè un bambino.
La donna scrollò le spalle.
Decidi tu. Ma ricorda che ora ci sono tagli. Qualsiasi cosa può diventare motivo di licenziamento.
Uscendo, sentii le gambe pesanti. Mi sedetti nella stanza di procedura, guardai le mie mani, segnate da miriadi di punture. Il pensiero di «qualsiasi lamentela è un pretesto» rimbalzava nella mente.
La sera le voci oltre il muro erano più soffuse, un litigio contenuto. Luomo parlava a bassa voce, ma la minaccia era evidente.
Se qualcuno torna, capirò che sei tu mormorò. Non vedrai più tua madre.
Non ho chiamato sussurrò Ginevra.
Rimasi a guardare il bicchiere di tè freddo, sentendo il rumore della casa trasformarsi: la vita quotidiana che scorreva, risate, musica, il tintinnio delle pentole. Non più il silenzio opprimente, ma un sottofondo di normalità.
Un giorno, tornando al tabellone delle comunicazioni del condominio, tra le pubblicità di nuove finestre in PVC e unAlla fine, Nadia capì che il suo silenzio era la più grande forza e, con la mano sul cuore, chiuse la porta su quel passato, pronta a costruire un futuro più sereno per sé e per il piccolo Sergio.






