Nella notte di festa i genitori lo cacciarono di casa. Anni dopo, fu lui ad aprire la porta, ma non quella che si aspettavano.

Nella notte di Capodanno, i suoi genitori lo cacciarono di casa. Anni dopo, lui aprì loro la porta, ma non come si aspettavano.

Fuori dalle finestre brillavano le luci delle feste, nelle case si cantava e ci si abbracciava accanto agli alberi addobbati. La città respirava l’aria della festa. E lui, invece, rimase sulla soglia, solo, con una giacca leggera e le pantofole, lo zaino abbandonato nella neve, incapace di credere che tutto fosse reale. Solo il vento gelido e i fiocchi che gli battevano sul viso gli confermavano: non era un sogno.

“Vattene. Non voglio più vederti!” urlò il padre, e la pesante porta si chiuse con un tonfo davanti al suo naso.

E sua madre? Stava in un angolo, immobile, le spalle strette, gli occhi fissi al pavimento. Non una parola. Non un gesto verso di lui. Si morse solo il labbro e si voltò. Quel silenzio fu più assordante di qualunque grido.

Luca Romano scese i gradini del portico. La neve gli inzuppò subito i piedi. Camminò senza una meta. Dietro i vetri, la gente beveva tè, scambiava regali, rideva. Lui, invece, invisibile a tutti, si dissolveva nel bianco silenzio.

La prima settimana dormì dove capitava: alle fermate degli autobus, nei portoni, nelle cantine. Lo cacciavano da ogni posto. Mangiava quel che trovava nei cassonetti. Una volta rubò persino del pane. Non per rabbia, ma per disperazione.

Un giorno, un vecchio con il bastone lo trovò in una cantina. Gli disse: “Resisti. La gente è crudele. Ma tu non diventare come loro.” E se ne andò, lasciandogli una scatola di carne in scatola.

Luca non dimenticò mai quelle parole.

Poi si ammalò. Febbre alta, brividi, delirio. Stava quasi per morire quando qualcuno lo tirò fuori dalla neve. Era Maria Esposito, un’assistente sociale. Lo strinse a sé e sussurrò: “Tranquillo. Ora non sei più solo.”

Finì in un rifugio. Dentro c’era calore. Odorava di minestra e di speranza. Maria veniva ogni giorno. Portava libri. Gli insegnava a credere in sé stesso. Gli diceva: “Hai diritto, anche se non hai niente.”

Lui leggeva. Ascoltava. Ricordava. E giurò che un giorno avrebbe aiutato anche gli altri, quelli dimenticati come lui.

Superò l’esame di maturità. Si iscrisse all’università. Studiava di giorno, lavava i pavimenti di notte. Non si lamentò mai. Non cadde. Diventò avvocato. E ora difendeva chi non aveva più una casa, né protezione, né voce.

E un giorno, dopo tanti anni, nella sua stanza d’ufficio entrarono due persone: un uomo curvo e una donna con le trecce grigie. Li riconobbe all’istante. Suo padre e sua madre. Quelli che, in una gelida notte, lo avevano buttato fuori.

“Luca… perdonaci…” sussurrò il padre.

Lui tacque. Dentro non sentiva nulla. Né rabbia, né dolore. Solo una fredda chiarezza.

“Perdonare si può. Ma tornare indietro, no. Io per voi morii quella notte. E voi per me.”

Aprì la porta davanti a loro.

“Andate. E non tornate più.”

Poi tornò al lavoro. Alla sua nuova causa. Al bambino che aveva bisogno di protezione.

Perché lui sapeva cosa significava stare scalzo nella neve. E sapeva quanto fosse importante che qualcuno, in quel momento, ti dicesse: “Non sei solo.”

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Nella notte di festa i genitori lo cacciarono di casa. Anni dopo, fu lui ad aprire la porta, ma non quella che si aspettavano.