12 aprile 2025
Farò tardi, al cantiere siamo sommersi da mille cose, la voce di Vittoria suonava affievolita, mentre in sottofondo ronzava la smerigliatrice. Mi senti davvero?
Sì, ti sento, ho spostato il cellulare sullaltro orecchio. Non ti aspetto per cena?
Non aspettare. Potrei non tornare, le scadenze stanno bruciando.
Daccordo.
Un paio di squilli rapidi. Così è sempre.
Ho posato il telefono sul tavolo della cucina e ho guardato la pentola dove stava raffreddando la minestra di fagioli. La preparavo per due per abitudine, anche se ormai era il momento di smettere. Vittoria era una posatrice di piastrelle, e il suo lavoro seguiva il ritmo di un elettrocardiogramma: improvvisi picchi di attività alternati a lunghi periodi di stasi. Per sei mesi girovagava da un cantiere allaltro, posando metri quadrati di pregiato gres porcellanato nelle case altrui, guadagnando cifre che mi facevano invidiare in silenzio. Poi, per altri sei mesi, non cera alcun ordine e lei rimaneva a casa.
Entrambi questi regimi erano insopportabili a modo loro.
Quando Vittoria lavorava, spariva. Corpo, mente ed emozioni tutti assorbiti dal lavoro. Partiva alle sette del mattino, tornava dopo mezzanotte, se tornava davvero. A volte dormiva nei cantieri, perché che senso ha il continuo andare e venire, alle sei ricomincio lo stesso. Io cenavo da solo, guardavo serie televisive, mi infilavo in un letto freddo e vuoto. Lunico promemoria del fatto che fosse la mia moglie era il certificato di matrimonio infilato in una cartella di documenti.
Ho provato a contare quante cene condivise avessimo avuto negli ultimi tre mesi. Quattro. Solo quattro!
Il vero inferno iniziava quando finiva il lavoro.
Vittoria tornava a casa. Sembrava il momento di gioire, di stare insieme. Ma non era così. Dopo sei mesi di interventi in case altrui, la sua mente era invasa da mille soluzioni di design che la facevano irritare per la propria abitazione. Guardava la piastrella del bagno quella che aveva posato due anni prima e i suoi occhi si stringevano.
Che incubo, mormorava, sfiorando le fughe. Come ho potuto permettermi un errore così piccolo? Un millimetro e mezzo di scostamento. Un millimetro e mezzo, Edo!
Io, che non distinguerei un millimetro e mezzo da quindici, annuivo educatamente.
Poi iniziava davvero.
Prima diceva: vediamo se si può aggiustare qualcosa. Poi: tolgo una piastrella, la rimpiazzo, e basta. Poi: se devo ricominciare, rifaccio tutta la parete, altrimenti non ha senso. E quando tornavo dal lavoro trovavo il bagno trasformato in un mucchio di intonaci, sacchi di cemento e Vittoria con il respiratore, felice a mescolare la colla per piastrelle.
In tre anni di matrimonio avevamo passato quattro bagni, tre cucine e un corridoio in ristrutturazione.
Il lavoro fu completato in tempo, e di nuovo calò il periodo di silenzio. Ma non per me.
Portami i tasselli per le piastrelle, mi chiamò Vittoria mentre ero al cantiere. E la stucco grigio, ti mando il modello.
Sono al lavoro.
Passa a pranzo. Devo finire quellangolo entro sera.
Va bene.
Porta, prendi, ordina, aiuta. Sono diventato corriere, carrellista e aiuto muratore in una sola persona. Vittoria non usciva di casa se non per il negozio di materiali, a volte tre volte al giorno, perché non sapevo che lo stucco non bastasse, come avrei potuto immaginarlo?.
Era sempre stanca, stanca del lavoro che lei stessa aveva iniziato. La trovavo la sera in cucina sporca, sfinita, con la polvere di piastrelle nei capelli e mi guardava con occhi vuoti.
Vuoi cenare?
Dopo. Non ho forze.
Non aveva più forza per nulla: parlare, guardare un film insieme, intimità, niente. Io servivo solo a portarle i rulli quando le era pigro vestirsi, a portare sacchi di cemento dalla macchina, a reggere il livello mentre lei allineava le righe.
Siamo coniugi, diceva Vittoria quando cercavo di protestare. I coniugi si aiutano.
Coniugi. Che parola ridicola per una relazione in cui uno è solo il personale di supporto per le ambizioni professionali dellaltro.
Sabato sera Vittoria sistemava il bordo sopra il piano cottura. Il colore precedente non le piaceva. Io ero seduto al tavolo, cercando di bere un tè. La teiera era su una sedia nel corridoio, perché il piano era pieno di piastrelle. Lo zucchero lo trovai nel bagno. Il cucchiaio? Invanito.
Vittoria, iniziai con cautela, basta così?
Finché cosa? non si girò nemmeno, continuando a infilare unaltra piastrella.
Di tutto questo. Di ristrutturare. Cambi sempre qualcosa.
E allora? Mi piace. Questa è casa mia, la voglio perfetta.
Non sarà mai perfetta per te. Rifarai tutto, andrai su altri cantieri, vedrai nuove cose e ricomincerai da capo.
Depose la piastrella e si voltò lentamente. Nei suoi occhi cera qualcosa di minaccioso.
E cosa proponi? Vivere così, circondato da irritazioni?
Propongo di vivere normalmente! Come gente normale. Andare al cinema. Cenare insieme. Parlare di qualcosa che non siano le fughe e lo stucco. Ti ricordi lultima volta che siamo usciti solo noi due?
Ho lavoro.
Non hai lavoro! Te lhai inventato!
Questo non è un lavoro inventato, Edo. Si chiama migliorare le condizioni abitative. Alcuni ne sanno il valore.
Alcuni vogliono solo vivere. Non in un cantiere, non nella polvere, non nel ruolo di porta e prendi. Vivere con una moglie che ricorda di avere un marito.
Vittoria incrociò le braccia, difendendosi.
Non capisci. Tu sei un programmatore, stai nel tuo comodo ufficio a battere i tasti. Io creo con le mani, qualcosa di tangibile. Quando vedo che posso fare meglio, lo faccio.
A spese di tutto il resto!
Se non ti accontenta, nessuno ti trattiene.
Lha detta quasi con noncuranza, come se si parlasse di una sedia scomoda da sostituire. Io rimasi in silenzio. Quelle sette parole racchiudevano tutto il nostro problema, compressa in ununica frase. Per Vittoria era unopzione, non una necessità, né un marito, né una persona amata solo uninterruttore da spegnere se dava fastidio.
Sai, mi alzai scrollando i jeans dalla polvere, forse hai ragione.
In che senso?
Che davvero non cè più nulla che mi trattenga.
Ci guardammo tra mucchi di piastrelle, sacchi di colla e i resti di quello che un tempo era la nostra cucina. Entrambi capimmo che la lite non riguardava i lavori, ma i ritmi di vita che da tempo si erano allontanati, incrociandosi più che mai allindirizzo di casa.
Divorziammo in tre mesi. Sorprendentemente pacifici. Non cera nulla da dividere.
Passeggiavo nel mio nuovo appartamento piccolo, ma pulito, senza un sacco di cemento in vista e non riuscivo a credere al silenzio. Nessuno trapassava. Nessuno bussava. Nessuno chiedeva urgente stucco perché era finito.
Per la prima volta in tre anni potevo pianificare la serata con certezza. Ma sentivo un vuoto nel petto, un buco che non si colmava.
Quasi due anni passarono.
Hai sentito le notizie? mi chiamò Dario, un vecchio amico, venerdì sera. Della tua ex?
Mi irrigidii. Da quando il divorzio, evitavo qualsiasi informazione su Vittoria.
Che notizie?
Si è sposata. Con una posatrice, poco fa.
Rapida, eh.
Sì. E sai con chi? Dario fece una pausa teatrale. Con un piastrellista, ci credi?
Strizzai gli occhi.
E loro?
Dicono che siano una coppia perfetta. Si muovono insieme nei cantieri, una squadra di due. Il duo ideale.
Pensai a lungo a come Vittoria avesse trovato qualcuno che parlasse la sua stessa lingua. Qualcuno per cui un millimetro e mezzo di scostamento fosse ancora un dramma. Qualcuno che capisse la differenza tra stucco epossidico e quello a base di cemento senza doverlo spiegare, perché lo sapeva già.
Quel fastidio che mi faceva arrancare divenne il fondamento del loro rapporto. Ironico.
Li incrociai al supermercato tre mesi dopo, per puro caso entrai per fare la spesa dopo il lavoro, presi un carrello e mi avvicinai al reparto latticini, dove mi bloccò.
Vittoria stava davanti al frigorifero, scegliendo yogurt. Accanto a lei cera un uomo della sua età, corporoso, con le mani segnate dal lavoro. Discutevano sottovoce, ridevano. Vittoria lo colpì con la spalla, lui le puntò il dito sul fianco, lei strillò e si allontanò.
Sembravano due adolescenti innamorati, ignari del mondo, perché lintero universo si era ridotto a quellunica persona accanto a loro.
Vittoria appariva diversa. Non più stanca, non più con lo sguardo vuoto di chi ha martellato muri per otto ore. Era viva, come la ricordavo nei primi giorni, quando ci eravamo conosciuti.
Rimasi immobile, posai il carrello e uscii dal negozio senza comprare nulla.
Nel parcheggio, sorrisi. Noi due semplicemente non eravamo fatti luno per laltro. Il nostro divorzio era inevitabile.
Accesi il motore.
Se Vittoria ha trovato il suo uomo, anche io troverò la mia strada.
La nebbia densa che avvolgeva la mia vita dopo il divorzio si è finalmente dissipata. Ho capito che nessuno mi trattiene se non lo permetto.





