«No, mamma. Non verrai più a trovarci: né oggi, né domani, né lanno prossimo» una storia di pazienza esaurita.
Passai molto tempo a pensare a come iniziare questa storia, e mi venivano in mente solo due parole: *sfacciataggine* e *complicità silenziosa*. La prima veniva da mia suocera, la seconda da mio marito. E in mezzo, cero io. Una donna che aveva cercato di essere buona, gentile, educata. Fino a quando capii che, se fossi rimasta in silenzio, della *nostra* casa non sarebbe rimasto che un guscio vuoto.
Non ho mai capito come qualcuno possa entrare in casa altrui e prendere ciò che non è suo, come se tutto gli appartenesse. Ma mia suocera lo faceva. E tutto per sua figlia. La sorella di mio marito.
Ogni sua visita finiva con carne che spariva dal freezer, pentole di polpette che svanivano dal fornello, e persino il mio nuovo piastra per capelli, che non avevo neppure usato, fu portato via. *”Anita ha i capelli così ricci, e tu stai a casa, non ti serve”*, spiegò poi, senza un briciolo di vergogna.
Io resistetti. Serrai i denti. Ne parlai con mio marito. Lui scrollò le spalle. *”È mia madre, non lo fa con cattiveria. Ne compriamo un altro.”*
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu il nostro quinto anniversario di matrimonio. Decidemmo di festeggiare con una cena romantica, come ai vecchi tempi. Avevo scelto labito, mancavano solo le scarpe. E le comprai. Belle, costose, quelle che sognavo dallestate scorsa. Lasciai la scatola in camera, in attesa del grande giorno.
Ma nulla andò come previsto.
Quel giorno, tardai al lavoro e chiesi a mio marito di andare a prendere nostra figlia allasilo. Lui accettò, ma poi capitò un imprevisto e, invece di andare, chiamò sua madre. Le diede le chiavi per entrare in casa e stare con la piccola Sofia.
Quando tornai, andai dritta in camera. E mi fermai. La scatola era sparita.
Matteo, dove sono le mie scarpe nuove? chiesi, sapendo già la risposta.
E come faccio a saperlo? scrollò le spalle.
Tua madre è stata qui?
Sì, è venuta a prendere Sofia, è rimasta un po ed è andata via.
E le chiavi? dissi, mantenendo la calma.
Gliele ho date, e allora?
Presi il telefono e la chiamai. Rispose subito.
Buonasera cominciai, controllata. Immagino tu sappia perché ti chiamo.
Non ne ho idea rispose, senza il minimo imbarazzo.
Dove sono le mie scarpe nuove?
Le ho date ad Anita. Tu hai già troppe scarpe. E lei non ha nulla di decente per la festa di Capodanno.
E, senza altro, *clic* riattaccò. Senza rimorsi. Senza scuse. Solo silenzio.
Mio marito, come al solito, si limitò a dire: *”Ne compriamo altre, non preoccuparti. È mia madre.”*
Mi alzai. Lo presi per il braccio. Lo portai al centro commerciale. E lì, davanti alla vetrina, indicai lunico paio che vedevo da mesi nelle pubblicità un paio di scarpe che quasi gli fece venire un infarto.
Giulia, costano metà del mio stipendio! esclamò, pallido.
Hai detto che le compravamo. Quindi compriamole. rimasi ferma.
Lui pagò. Firmò, così, il prezzo del suo silenzio complice.
Ma la storia non finì lì. Sulla strada di casa, il suo telefono squillò. Era sua madre: *”Vengo da voi oggi. Ho sacchetti di erbe fresche, il mio freezer è pieno. Ve le lascio e le riprendo tra un mese o due.”*
Lo vidi guardare lo schermo. Serrò le labbra. E poi, per la prima volta, compose il numero e disse, con una voce che non ammetteva repliche:
Mamma, non tornare più qui. Né oggi, né domani, né lanno prossimo. Perché il tuo ultimo *favore* ci è costato troppo caro.
Riattaccò. E io lo guardai, sentendo, dopo tanto tempo, che eravamo davvero una famiglia. Una casa dove le porte non si aprono per chi ruba, ma per chi rispetta.
A volte, il confine tra pazienza e rassegnazione è sottile. Ma quando lo superi, scopri che il rispetto non si chiede. Si impone.






