Non ce la faccio più: dove trovare aiuto per mia madre anziana?

Non ce la faccio più. Dove posso mandare mia madre anziana?

Non so quanto ancora reggerò. All’inizio pensavo: ce la farò. Era solo un periodo difficile, l’amore e la pazienza avrebbero vinto. Ma ora sono al limite: emotivamente, fisicamente, moralmente. Qualcuno mi condannerà per questo, mentre altri capiranno perché ci sono già passati. Racconto la mia storia non per giustificarmi, ma solo per sfogarmi.

Mi chiamo Beatrice, sono la seconda figlia. Mio fratello maggiore, Vincenzo, ha tre anni più di me. Mamma ci ha avuti tardi: lui a quarantadue, io a quarantacinque. I miei genitori non riuscivano ad avere figli, e quando finalmente è successo, per lei siamo stati un vero miracolo. Eravamo il senso della sua vita. E nonostante la differenza d’età con le altre mamme, ci ha dato tutto: amore, calore, istruzione.

A diciassette anni, papà è morto. Per me e Vincenzo è stato un colpo terribile, ma per mamma è stato la fine del mondo. Non si riprendeva, e io, come potevo, la sostenevo. Mio fratello è partito per studiare, poi si è trasferito in America — per lavoro, carriera, famiglia. Siamo rimaste solo io e mamma.

Sono passati anni. Ora mamma ha settantotto anni, e io sono ancora qui. Solo che ora non è più solo mia madre. È una persona che ha bisogno di cure costanti, quasi ventiquattro ore su ventiquattro. E non ce la faccio.

Mamma dimentica le cose più semplici. Lascia il ferro acceso, la pentola sul fuoco, mette la teiera in frigo e il latte nell’armadio. Le ho detto mille volte: “Non aiutarmi, faccio tutto io!”. Ma lei continua — con buone intenzioni, per abitudine, per sentirsi utile. Solo che ormai è più un problema che un aiuto. E io mi sento in colpa a dirle: “Mamma, smettila”, perché vedo quanto soffre quando si rende conto di non farcela.

L’altro giorno è successo il peggio. Mamma è uscita e non è tornata. Aveva dimenticato dove stava andando, perfino dove abita. L’abbiamo cercata per ore. Ho chiamato tutti, girato il quartiere, ero fuori di me. L’ho trovata per caso: un’amica l’ha vista dall’altra parte di Roma e mi ha avvisato. Mamma era confusa, gelata, spaventata. E io? Distrutta, esaurita, svuotata.

E ormai è la normalità. Tensione costante. La paura che succeda qualcosa. La responsabilità che non finisce mai. Non posso rilassarmi un attimo. Mi sveglio di notte al minimo rumore. Non posso andare da nessuna parte. Non vivo — sopravvivo. Non sono più una figlia: sono un’infermiera. E tutto questo mi sta consumando.

E intanto, io ho una famiglia. Mio marito, i figli, i nipoti. Li amo, ho sempre vissuto per loro. Ma ora sulle mie spalle c’è mamma. E sento che non ce la faccio più. Sono stanca. Svuotata. Piango di notte perché non so come andrà avanti.

Non riesco neanche a dirlo ad alta voce: “Dove posso mandare mamma?”. Già solo la parola “mandare” suona come un tradimento. Come se non fossi più sua figlia. Ma esistono le case di riposo, le residenze assistite. Perché non posso pensarci senza sentirmi in colpa?

Perché ci hanno cresciuti così. Perché la madre è sacra. Perché lei mi ha cresciuta, protetta. E ora è mio dovere starle accanto. Ma il dovere non è una condanna. Eppure, è come se mi avessero messo un macigno al collo dicendomi: “Portalo finché non crolli”.

Vincenzo manda soldi, chiama, mi dice che mi capisce. Ma lui è dall’altra parte del mondo. Non vede mamma che piange di notte, che si perde in un bicchier d’acqua, che confonde il mio nome con quello della nonna. Non corre per strada in preda al panico quando non torna dal mercato. Non raccoglie i piatti rotti che lascia cadere. Lui vive sereno. Io invece sono qui. In questa casa. In questo circolo vizioso.

Non so cosa fare. Voglio solo respirare. Svegliarmi senza ansia. Andare a trovare mia figlia senza temere che mamma dia fuoco alla casa. Non chiedo molto. Voglio solo un po’ di vita. Un po’ di silenzio. Un po’ di me stessa.

E magari qualcuno mi giudicherà. Dirà che sono una cattiva figlia. Che una madre va portata in braccio fino alla fine. Ma prima provino a farlo loro, un anno, due, cinque. Poi mi dicano com’è essere vivi ma senza diritto al riposo.

Non voglio abbandonare mamma. Voglio che stia bene. Che qualcuno si prenda cura di lei, che sia al sicuro. Voglio amarla, non averne paura. Ma ora — non ce la faccio più. E se c’è un posto dove starà meglio, dove avrà assistenza, dove sarà sorvegliata… forse è giusto pensarci?

Non lo so. Davvero non lo so. Ma non ce la faccio più.

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