Non chiamare dopo le nove

**10 ottobre**
*Abitavo in pigiama, infilando pure le trecce come sempre prima di dormire, quando squillò il telefono. Quell’urlo metallico squarciò il silenzio dell’appartamento, facendomi sobbalzare. L’orologio segnava le ventuno e trenta.*

«Pronto?» Nessuna voce all’altro capo. «Pronto, chi parla?»
«Mamma?» Un sussurro appena percettibile.
«Giulia? Che succede? Sai che non amo le chiamate tardive!» M’appoggiai al bordo del letto, stringendo la cornetta. «Stai bene?»
«Sì… cioè no… Posso venire da te? Subito?»

Quel tono mi gelò il sangue. Mia figlia non chiedeva mai aiuto, orgogliosa com’era della sua indipendenza.
«Certo. Ma cosa è accaduto?»
«Te lo dico dopo. Esco ora.»

Il segnale si interruppe. Rimasi immobile col telefono in mano, poi lo riagganciai e preparai l’acqua per il tè. Giulia abitava in un altro quartiere di Roma, quasi un’nora d’autobus col traffico. Sarebbe arrivata presto.

Presi le tazze migliori dalla credenza, quelle per gli ospiti, tagliai il limone e disposi i biscotti su un piatto. Le mani mi tremavano, un presentimento tetro mi serrava il petto.

Giulia arrivò prima del previsto. Sulla soglia, gli occhi gonfi e i capelli scomposti, stringeva una borsa sportiva.
«Piccola mia…» L’abbracciai, sentendo i suoi brividi. «Vieni, entra. Ho il tè pronto.»

Sedute in cucina, scorse minuti col solo rumore dei suoi singhiozzi. Aspettai, senza forzarla.
«Mi picchia, mamma. Non è la prima volta.» Posai la tazza, un freddo profondo nel petto.
«Cosa? Andrea? Ma non è possibile!»
«Mento, secondo te?» Alzò il viso scoprendo un livido sotto l’occhio. «Guarda qui!»
«Santo cielo…» Tentai di accarezzarla, ma si scostò.
«Niente pietà! È colpa mia per aver insistito. Credevo che dopo il matrimonio sarebbe cambiato… Che stupida, mamma!»
«Perché non me l’hai detto prima? Avremmo potuto…»
«Che avresti fatto?» Rise amara. «Mi avresti pregato di sopportare per la famiglia, come dici sempre: si sposa una volta sola.»

Abbassai lo sguardo. Era vero: con il padre di Giulia, nonostante l’alcolismo e le urla, avevo resistito quarant’anni, convinta fosse un dovere.
«E i bambini?»
«Dalla suocera. Ho detto che passavo da nonna.» Si asciugò gli occhi col maglione. «Martina ha solo sette anni. Paolo ha capito già tutto. Ieri mi ha chiesto perché papà urla.»
«Che gli hai risposto?»
«Che è stanco dal lavoro.» Serrò i pugni. «Abituata a mentire ai bambini, brava, eh?»

Mi alzai guardando la pioggia sui vetri. Quante volte ero stata a quella finestra quando mio marito non tornava o rientrava ubriaco? Quante volte avrei voluto scappare?
«Lui dov’è?»
«A casa. Sbronzo e addormentato.» Un respiro affannoso. «Mamma, non reggo più. Non voglio che crescano in quell’inferno. Ricordi quando mi nascondevo nell’armadio?»
«Tuo padre non ci ha mai alzato le mani!»
«Ma le urla facevano bussare i vicini. E tu perdonavi tutto. Temevo che tutti gli uomini fossero così.» Mi fissò. «Non permetterò che Martina pensi sia normale farsi schiacciare.»

Tornai al tavolo.
«Però non è sempre cattivo. Ricordo quanto vi amavate…»
«Mamma!» Batté un pugno sul legno. «Questo non è amore! Un uomo vero non colpisce mai una donna! Mai!»
«Ma se l’avessi provocato…»
«Io?» Si alzò. «Sai perché stavolta? Gli ho chiesto di non fumare nella cameretta. Martina tossisce di notte, rischia l’asma. Lui: “Non comandare in casa mia!” E mi ha colpita.»
«Potevi esser più dolcema…»
«Ti senti?» Si irrigidì. «Stai giustificando chi ferisce tua figlia!»

Mi persi. Giustificavo solo ciò che per anni avevo tollerato, pensando alla pace familiare sopra ogni cosa.
«Non gi
Mai telefonare dopo le nove. Avevo già indossato la camicia da notte e legato i capelli quando squillò il telefono. I trilli acuti squassarono il silenzio dell’appartamento, facendomi trasalire. L’orologio segnava le nove e mezza.

“Pronto?” Dall’altra parte, silenzio. “Pronto, chi parla?”

“Mamma?” Una voce appena percettibile, come se temesse d’essere udita.

“Fiamma? Che succede? Sai che odio le telefonate tardive!” M’accasciai sul bordo del letto, stringendo la cornetta. “Stai bene?”

“Sì… Cioè no… Mamma, posso venire da te? Subito?”

Qualcosa in quella voce mi strinse il cuore. Fiammetta non chiedeva mai aiuto, sempre autonoma e orgogliosa.

“Certo, vieni. Ma cosa è successo?”

“Te lo dico dopo. Esco ora.”

Il segnale d’interruzione. Restai immobile col telefono in mano, poi lo riappesi e misi il bollitore sul fuoco. Fiamma abitava nel quartiere vicino, quaranta minuti d’autobus senza traffico. Sarebbe arrivata entro un’ora.

Trassi dalla credenza le tazze buone, quelle per gli ospiti, affettai un limone, disposi i biscotti su un piatto. Le mani mi tremavano leggermente – un presentimento cupo non mi abbandonava.

Fiamma arrivò prima del previsto. Quando aprìi la porta, mia figlia era sulla soglia con gli occhi gonfi e i capelli scomposti, una borsa da ginnastica in mano.

“Oh, piccola mia…” La strinsi, sentendola fremere. “Entra, entra. La camomilla è pronta.”

Sedute in cucina, Fiamma beveva in silenzio, singhiozzando a tratti. Aspettai senza osare interrogare. Avrebbe parlato quando pronta.

“Mi picchia, mamma,” sussurrò infine, quasi impercettibilmente. “Non è la prima volta.”

Appoggiai la tazza, un gelo improvviso nel petto.

“Picchia? Marco? Ma cosa dici!”

“Ti sembro bugiarda?” Alzò bruscamente il viso. Un livido malcamuffato dal trucco le ombreggiava l’occhio. “Guarda qui!”

“Dio mio…” Tesi le mani verso di lei, ma si ritrasse.

“Non commiserarmi! Colpa mia, ho insistito. Credevo dopo il matrimonio sarebbe cambiato… Ingenua io, mamma, ingenua!”

“Perché non mi hai parlato prima? Insieme avremmo…”

“E cosa avresti fatto?” Rise amara. “Mi avresti esortata a sopportare, salvare la famiglia, per i bambini. Hai sempre detto: si sposa una volta sola.”

Abbassai lo sguardo. Veramente, l’avevo sempre pensato. Io stessa vissi col padre di Fiamma quarant’anni, non sempre facili. Tollerai i suoi eccessi, le sgarbatezze. Mi parve normale.

“I bambini dove sono?”

“Dalla suocera. Ho detto sarei andata dalla nonna.” Si asciugò gli occhi col dorso della mano. “Non devono vedermi così. Sofia ha sette anni, Paolo… già capisce. Ieri ha chiesto perché papà urla.”

“Cosa hai risposto?”

“Che papà è stanco dal lavoro.” Serrò i pugni. “Brava, vero? Imparare a mentire.”

Mi alzai, mi affacciai alla finestra. Fuori una pioggerella leggera, i lampioni riflessi in pozzanghere gialle. Quante volte io stessa ero rimasta a quest’infisso quando mio marito tardava o tornava ubriaco. Quante volte pensai di fuggire, ma rimasi. Per mia figlia, credevo.

“Lui dov’è ora?”

“A casa. Dorme. Ubriaco rimbambito.” Un sussulto le scosse il petto. “Mamma, basta. Non voglio bambini
E quella notte, ascoltando il respiro pacato di mia figlia addormentata sul divano, realizzai che la paura più grande non era l’ignoto che ci attendeva domani, ma aver permesso per troppo tempo a lei di credere che il silenzio fosse coraggio.

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