— Fa’ semplicemente il tuo dovere — la voce di Dario era piatta. Nemmeno alzò gli occhi dal telefono. — Il tuo compito è occuparti della casa. Io mantengo la famiglia, tu la gestisci. È giusto così.
Rimasi immobile, il piatto stretto tra le mani. In ventitré anni di matrimonio, avevo visto di tutto, ma quelle parole…
Federica, la mia migliore amica, seduta di fronte a me, sorseggiò il vino e sbuffò:
— E cosa avrebbe detto di male? Molte sognerebbero di essere al tuo posto, Elisabetta.
Lo sguardo mi sfuggì verso mio figlio. Alessandro teneva la testa bassa. Il suo telefono vibrava.
— Dario — posai il piatto sul tavolo. — Hai mai pensato che potessi essere qualcosa di più di una domestica?
— Eccoci — mi lanciò un’occhiata stanca. — Ne abbiamo già parlato quando hai lasciato il lavoro.
— O meglio, mi hai convinto che fosse la scelta migliore per tutti?
Qualcosa nel mio tono lo costrinse a distogliere lo sguardo dallo schermo. I nostri occhi si incrociarono, e per un istante vidi una scintilla di paura nel suo. Credeva davvero che non avessi notato i loro sguardi, quelle fugaci carezze?
Alessandro si alzò di scatto:
— Posso andare? Ho un progetto di informatica da finire.
— Certo, vai — risposi senza staccare gli occhi da mio marito.
Il rumore della porta d’ingresso che sbatteva echeggiò nell’appartamento. Federica era già sparita. Dario raccoglieva i piatti in silenzio.
— Lasciali. Siediti.
— A che serve questa discussione? — si bloccò davanti al lavello.
— A dirti che non sono una lavapiatti. Ti ricordi chi ero prima che mi convincessi che “i figli hanno bisogno della madre a casa”?
— Ecco, ricominci.
— No. Sei tu che hai deciso. Come sempre.
Il telefono di Dario vibrò. Un messaggio.
— Non rispondi? Da Federica?
— Basta. Stai esagerando.
— Io esagero? Parliamo allora di cosa significa esagerare. Dimmi del progetto con la mia migliore amica.
Lo schiaffo tagliò l’aria. Ma non era stato Dario a colpirmi. Ero io che l’avevo schiaffeggiato.
— Mamma? — la voce di Alessandro dal corridoio ci fece sobbalzare. — Vado da Matteo, va bene?
— Sì, amore.
Alle tre di notte, il rumore della porta mi svegliò di colpo. Alessandro?
— Dove sei stato? — mi fermai sulla soglia della cucina.
Mio figlio trasalì, nascondendo in fretta qualcosa in tasca.
— Ale, cosa sta succedendo?
— Io… ho lasciato l’università. Due mesi fa. Non voglio fare informatica! È il sogno di papà, non il mio.
— E i soldi? A chi li devi?
— Ho fatto un prestito. Trentamila euro. Per un corso di fotografia. Ora mi minacciano di dirlo a papà.
— Domani sistemiamo tutto — dissi.
Non feci in tempo a finire. La chiave girò nella serratura. Dario.
— Non dormi? — la sua voce era rauca. Puzzava di whisky.
— Papà, posso spiegare — Alessandro si mise tra noi.
— Cosa esattamente? Che mio figlio è un bugiardo? Federica mi ha raccontato tutto. Dell’università.
Rimasi di ghiaccio:
— Federica?
— Sì, immagina. Almeno qualcuno in questa casa mi dice la verità.
— Basta — dissi rivolta a Dario.
— Cosa “basta”? Tu l’hai cresciato così? — si voltò verso di me. — A proposito di bugie, com’è Federica? Stanchissima di tutte quelle riunioni di lavoro, immagino?
— Zitto! — sibilò Dario.
— E allora? Mi picchi? Davanti a nostro figlio?
Alessandro fece un passo verso la porta:
— Me ne vado. Siete fatti l’uno per l’altra.
La porta sbatté.
— ContentE mentre la porta si richiudeva alle sue spalle per l’ultima volta, capii che finalmente ero libera.