— Non fare la stupida! Dov’è il medaglione che ha nascosto mia madre? O sei stata tu a prenderlo? Parla! — Paolo le afferrò le spalle con forza, stringendole la carne tra le dita.
Elisabetta non era mai stata bella. Quando la nonna vide la nipotina appena nata in ospedale, chiese alla figlia come intendesse chiamarla.
— Elena — rispose la mamma con dolcezza.
— Le Elena sono belle, ma tua figlia, mi dispiace dirtelo, non lo sarà. Chiamala Elisabetta, come tua nonna — sospirò la vecchia.
All’asilo, tutte le bambine erano graziose, con occhi grandi, guance paffute e bocchette a cuore incorniciate da riccioli biondi. Elisabetta, invece, era goffa, con capelli lisci color topo che si elettrizzavano e le si rizzavano in tutte le direzioni.
— Poverina, quanto soffrirà con quel fisico. Dubito che si sposerà. Te l’avevo detto di scegliere un uomo con più tatto. E tu invece? — borbottava la nonna mentre le intrecciava quelle poche ciocche sostenute a fatica da fiocchi scoloriti.
— Mamma, basta! Crescendo migliorerà — ribatteva la madre.
A dodici anni, però, Elisabetta non era cambiata. Sgraziata, con un taglio corto, era la più alta della classe. I ragazzi la chiamavano «grattacielo». Si chiuse in sé stessa, senza amici, passando i pomeriggi a leggere.
Alle superiori, saltò il ballo di Capodanno. Il vestito comprato d’estate non le entrava più.
— Perché sei a casa? — chiese la madre rientrando dal lavoro.
— Perché mi hai messa al mondo? Per farmi soffrire? Mi chiamano grattacielo, nessuno mi invita a ballare. Sono una mostruosità! — urlò Elisabetta, in lacrime.
— Piccola, anche le belle non sempre hanno una vita felice. La natura è così, cosa possiamo farci? La bellezza non è tutto — cercò di consolarla la madre.
— E allora cos’è tutto? I soldi? Con quelli puoi comprare anche l’aspetto, ma noi non ne abbiamo. Non mi sposerò mai, non avrò figli. Non voglio che una mia bambina sia orrenda come me.
— Ci si innamora dell’esterno, ma si apprezza l’anima — disse la madre con rassegnazione.
— E io ho un brutto carattere, lo dici sempre tu. Come puoi essere serena se nessuno ti vuole bene? Mi evitano come se avessi la lebbra. — Gli occhi le bruciavano. — Perché non hai scelto un padre più attraente?
Dopo il liceo, avrebbe potuto iscriversi all’università, ma scelse un istituto per infermieri. Da piccola, ricoverata per una polmonite, le infermiere le erano parse angeli in camice bianco, con i capelli nascosti sotto le cuffie. Meno anni di studio, pochi ragazzi, nessuno che la prendesse in giro.
Si diplomò con lode. I pazienti l’adoravano. Faceva le iniezioni con maestria e si fermava ad ascoltare i loro sfoghi sui figli indifferenti. Nel reparto di medicina interna, c’erano soprattutto anziani.
Ma qualche giovane capitava. Uno di loro, Roberto, trentenne, le girava sempre attorno. Un giorno la baciò nella sala medica e la invitò al cinema dopo la dimissione. Ma i giorni passarono senza sue notizie. Elisabetta pensò di andare a cercarlo.
— Sciocchina ingenua. È sposato — disse l’infermiera capo.
— Lo dice per invidia — si offese Elisabetta.
— Guarda la cartella clinica: c’è scritto “coniugato” e il numero della moglie.
— Ma lei non è mai venuta a trovarlo — obiettò Elisabetta.
— Ecco perché ti cercava. Gli compravi frutta, gli portavi da mangiare. La moglie è a casa con due bambini, il più piccolo nato da un mese.
— Anche questo era scritto nella cartella? — chiese Elisabetta, ormai sul punto di piangere.
— Abita nel palazzo accanto al mio. Conosco bene sua moglie. Se avessi visto che tra voi due stava nascendo qualcosa di serio, te l’avrei detto subito. Ma lui… Forse aveva paura di me. Stai attenta con certi uomini. Su, non piangere. La felicità arriverà. Agli uomini piacciono le infermiere: sappiamo curare, confortare e fare le punture quando serve. — L’infermiera capo l’abbracciò con tenerezza materna.
Nel reparto c’era una donna anziana ed elegante. Nessuno la visitava. Sul comodino non c’erano arance colorate né barattoli di succo fatto in casa.
— Perché nessuno viene a trovarla? — chiese un giorno Elisabetta.
— Mio marito è morto dieci anni fa, mio figlio vive lontano. Ha famiglia e lavoro, non voglio disturbarlo. Me la caverò da sola — rispose Luisa.
— Ma cosa c’è di più importante della salute di una madre? Presto la dimetteranno, con la pressione che ha. Come farà?
— In qualche modo, Elisabetta — sorrise l’anziana.
— Posso venire a trovarla e aiutarla? Non è un problema. Posso farle le iniezioni e controllarle la pressione. Sono libera.
— Mi sembra di approfittare — esitò Luisa.
— Ne parleremo, ma ora devo andare. — Elisabetta le sfiorò una mano e uscì.
Dopo la dimissione, mantenne la promessa. Le preparava la minestra, faceva la spesa, puliva. Le piaceva quella casa spaziosa.
— Mio marito era militare, un generale — raccontava Luisa sorseggiando il tè. — Abbiamo girato mezza Italia per i suoi incarichi. Alla fine ci hanno dato questo appartamento, ma lui lo godé poco.
— Perché suo figlio non vive con lei? C’è tanto spazio.
— Sua nuora voleva dividere la casa in due. Non sopportava convivere. Io, dopo anni di alloggi provvisori, non ne potevo più. Rifiutai. Mio figlio si arrabbiò. Mio marito ne soffrì, ecco da dove venne l’infarto.
E non solo. Lui aiutò un politico importante durante il servizio. Non farò nomi. Quell’uomo, in segno di gratitudine, gli regalò un medaglione con un diamante raro.
Dopo la morte di mio marito, mio figlio venne a chiederlo. Io rifiutai. Mio marito voleva donarlo a un museo. Passava le sere a osservarlo. Il taglio della pietra era particolare. Lo spronavo a donarlo subito, ma lui esitava. — Luisa si alzò e uscì.
Tornò con una scatolina.
— Ecco, guarda. Puoi toccarlo.
— È pesante — commentò Elisabetta, infilandolo al dito.
— È da uomo. Mio marito non volle farlo valutare. Diceva che, se fosse stato falso, si sarebbe rattristato, e se autentico, i collezionisti ne avrebbero saputo. Dovevamo donarlo al museo. Non voglio che mio figlio si rovini. Lui, anzi sua moglie, non mollerà.
Elisabetta andava da Luisa ogni giorno. Una volta, l’anziana le mostrò un fagotto con l’abito per la sepoltura.
— L’indirizzo di suo figlio? Il telefono? — chiese Elisabetta. — Se dovesse succedere qualcosa…
— Non li ho. Mio marito bruciò tutto dopo il litigio.
Poi accadde l’inevitabile. Luisa ebbe un ictus. Elisabetta la trovò troppo tardi. Chiamò l’ambulanza, ma non ciElisabetta nascose il medaglione sotto il cuscino, decisa a donarlo al museo come Luisa avrebbe voluto, e quella notte, mentre la pioggia batteva contro la finestra, finalmente sentì che il suo cuore spezzato cominciava a trovare pace.