«Non permetterò mai che mia madre finisca in una casa di riposo!» — zia con ostentata determinazione portò la nostra malata nonna a casa sua, e dopo tre mesi scoprimmo che l’aveva portata in una casa per anziani.
Non dimenticherò mai il giorno in cui mia zia Alessandra, sorella di mia madre, con teatralità portò a casa sua la nostra nonna ammalata, nonna Giulia. Fu una vera e propria esibizione, piena di parole forti, accuse e lacrime amare. Quante parole offensive abbiamo sentito da lei in quel momento! Gridava così tanto che sembrava che la sua voce si diffondesse per tutto il paese, come se volesse che ogni vicino del nostro piccolo borgo nelle vicinanze di Firenze sapesse quanto lei fosse una “giusta” e quanto noi fossimo “insensibili”.
— Non permetterò che mia madre marcisca in una casa di riposo! Io ho una coscienza, non come voi! — lanciava in faccia a mia madre con tale foga che ancora oggi sento i brividi al ricordo.
Le sue parole suonavano come citazioni da un libro sui valori familiari, ma dietro di esse si nascondevano solo rabbia e giudizio. Si ergeva come un’eroina, mentre noi venivamo dipinti come quasi traditori. Ma non si trattava di coscienza, bensì del fatto che nonna aveva davvero bisogno di un aiuto serio che ormai non potevamo più darle.
Tutto iniziò dopo che nonna ebbe un ictus. La sua salute crollò come un castello di carte: la memoria diventò inaffidabile, poteva perdersi nella propria stanza, piangeva senza motivo e il suo comportamento divenne un enigma. A volte era gestibile, ma quei momenti diventavano sempre più frequenti e pericolosi. Un giorno tornammo a casa e vedemmo una scena che ci congelò il sangue nelle vene: tutte le lampade di casa erano accese, l’acqua scorreva dai rubinetti e il fornello a gas era acceso. Nonna era seduta in un angolo, brontolando qualcosa, senza capire che aveva quasi causato un incendio. Per fortuna arrivammo in tempo, altrimenti sarebbe stata una tragedia.
Dopo un’altra visita medica ci fu detta una triste verità: lo stato di salute di nonna sarebbe solo peggiorato. I farmaci potevano rallentare un po’ questo incubo, ma non c’era speranza di un miracolo. Ci rendemmo conto che non poteva più prendersi cura di sé stessa e noi non avevamo la possibilità di essere al suo fianco 24 ore su 24. Lavoro, figli, responsabilità quotidiane — tutto ci teneva occupati e il cuore si spezzava dall’impotenza.
Dopo lunghe discussioni e lacrime, decidemmo di cercare una buona casa di riposo dove professionisti avrebbero potuto prendersi cura di nonna, dove potesse essere a suo agio e al sicuro. Non avevamo intenzione di abbandonarla — volevamo darle il meglio che potessimo trovare in quella situazione. Ma quando ne venne a conoscenza zia Alessandra, che viveva a Pisa, arrivò da noi come una furia pronta a distruggere tutto sul suo cammino.
— Come potete anche solo pensare di affidare vostra madre a una casa di riposo? Ha dei figli, e voi volete liberarvene come di un vecchio mobile! — gridava, lanciando fulmini con gli occhi.
Le sue parole tagliavano come coltelli. E poi, senza ascoltare le nostre spiegazioni, semplicemente prese con sé nonna, sbattendo la porta con tanta forza che le finestre tremarono. Restammo in silenzio, storditi dalla sua ira e dalla nostra confusione.
Passarono tre mesi. Tre lunghi mesi pieni di preoccupazione per nonna. E poi arrivò la notizia che capovolse tutto: zia Alessandra aveva portato nonna in una casa tranquilla per anziani. Sì, la stessa donna che giurava sulla sua coscienza e ci accusava di disumanità, non ce la fece da sola. Si scoprì che prendersi cura di una persona anziana malata non era fatto di grandi parole, ma di un duro lavoro per il quale non era preparata.
L’ironia del destino mi colpì come ferro rovente. Avevo voglia di prendere il telefono e urlarle: «Dov’è ora la tua sbandierata coscienza, zia Alessandra? Dove sono le tue promesse?» Ma non rispondeva al telefono. Evidentemente, aveva capito di aver esagerato, che il suo orgoglio le aveva giocato un brutto tiro. Ma chiedere scusa o ammettere il proprio errore non ebbe il coraggio di farlo. Siamo rimasti con questo amaro retrogusto d’ipocrisia, e nonna — tra mura estranee, lontana da tutti noi.»