Non mi farete nulla. Non è colpa mia, balbettò, indietreggiando tremante di paura.

**Diario di Luca**

Non potevo crederci. “Non potete farmi niente. Non è colpa mia,” balbettò Niccolò, facendo un passo indietro. Tremava dalla paura.

All’inizio di giugno, finalmente era arrivato il caldo dell’estate. Stanchi della polvere e del soffocante afa di città, tutti scappavano verso il mare, in campagna o nei paesini di montagna. Anch’io, mia moglie e nostra figlia partimmo all’alba per il weekend, diretto al piccolo borgo dove sono cresciuto e dove vive ancora mia madre.

“Allora, siete pronti? Non avete dimenticato niente?” dissi, sistemandomi al volante. “Andiamo, prima che il sole diventi insopportabile.”

Sofia si mise accanto a me, mentre Ginevra si accomodò dietro, lontana dall’aria condizionata. Avevamo deciso che Sofia avrebbe passato le ultime settimane di vacanza dalla nonna. Non voleva andarsene dalla città, ma ormai tutti i suoi amici se n’erano andati e non c’era più nulla da fare lì.

“Perché quella faccia triste?” le dissi cercando di tirarle su il morale. “Ti piacerà, vedrai. E poi lì ci sono altri ragazzi. Tra poco non vorrai più tornare!”

“Dai, papà, va tutto bene,” borbottò Sofia, allacciandosi la cintura.

“Ecco, così mi piace!” sorrisi. “Sono le tue ultime vacanze lunghe. L’anno prossimo sarà pieno di esami, poi l’università… e poi la vita adulta.”

La città si svegliava piano. Le strade erano ancora vuote e in pochi minuti ci lasciammo alle spalle il traffico.

Il sole saliva lentamente, i suoi raggi filtravano tra le foglie degli alberi lungo la strada, accecandomi per un attimo. “Tutto tranquillo… eppure perché sento questa inquietudine?” pensai, fissando l’asfalto che scorreva veloce sotto le ruote.

Dopo quattro ore, arrivammo al paesino, immerso nel verde e nei fiori. Nonna aprì la porta, esclamò “Finalmente!” e ci abbracciò tutti, uno dopo l’altro.

“Ma quanto sei cresciuta, Sofia! Ormai sei una signorina. Luca, ho fatto i tuoi panzerotti preferiti. Avanti, entrate, non restate qui sulla porta!” La mamma era felice, si agitava tra la cucina e il salone.

“È tutto come prima,” sospirai, guardandomi la stanza e respirando quell’odore familiare. “Non è cambiato niente. Hai ancora tutto al suo posto. E tu sei sempre la stessa.” La strinsi forte.

“Ma che dici, sciocchino,” fece lei, scostandosi con un gesto della mano. “Avrete fame, no? Lavatevi le mani e facciamo colazione.”

“Stai attenta a questa qui, eh,” dissi, addentando metà panzerotto e sorseggiando il succo fresco che mi aveva preparato. “Non darle troppa libertà, che non vada a correre di notte.”

“E tu invece, ti ricordi come eri alla sua età?” rise mia madre, versandomi altro succo.

“Esatto! Su, nonna, racconta! Perché sembra che papà sia nato santo!” replicò Sofia ridacchiando.

La nonna mise in tavola altre leccornie, poi sbirciò dalla finestra.

“Chi vuole un caffè?” chiese, guardandoci. “Ah, Sofia, i tuoi amici sono già in cortile. Hanno visto arrivare la macchina.”

“Chi?” domandò lei, lanciandosi verso la finestra.

“Prima finisci di mangiare,” dissi severo. “Possono aspettare.”

“Ho finito! Grazie, nonna, erano buonissimi.” Sofia ballonzolava impaziente.

“Va’, corri,” rise la nonna. “Ma torna per pranzo!”

E Sofia sparì in un attimo.

“Stai attenta con lei, mamma,” sospirai. “Sembra grande, ma ha ancora la testa piena di vento.”

“Qui è tranquillo, non preoccuparti.”

La sera dopo, io e Ginevra tornammo in città. Mentre caricavo le valigie in macchina, rivolsi a Sofia gli ultimi ammonimenti.

“Aiuta la nonna. E non spegnere il telefono, capito?”

“Papà, basta, ho capito!” fece lei alzando gli occhi al cielo. “Se ti preoccupi così tanto, vuoi che torni con voi?”

“Seriamente, Luca, la stai asfissiando,” intervenne Ginevra. “Andiamo, sennò arriviamo a notte fonda.”

Mentre uscivamo dal cortile, guardai nello specchietto. Mia madre e Sofia ci salutavano. Mia moglie sembrava tranquilla. “Perché mi faccio tutte queste paranoie? Sofia è intelligente, non le succederà nulla. Devo imparare a lasciarla andare…” cercai di calmare quell’ansia inspiegabile.

Passarono tre settimane. Sofia chiamava ogni giorno, raccontando della vita in paese. E piano piano mi tranquillizzai. Ma un sabato mattina, il telefono mi svegliò.

“Ti chiamano dal lavoro?” borbottò Ginevra assonnata.

Presi il cellulare dal comodino. Era mia madre. Risposi subito.

“Sì, mamma. Perché chiami così presto?” Ma il cuore già batteva forte, presagendo guai.

“Luca, perdonami… Non ho saputo proteggere Sofia,” piangeva lei.

“Che le è successo?” Saltai dal letto, afferrando i jeans.

“Dovevi venire subito. Sofia è in ospedale, in coma…” La sua voce si spezzò.

“Vestiti, Sofia è in ospedale,” dissi a Ginevra, lasciando cadere il telefono sul letto.

Lei capì che qualcosa di grave era successo, si alzò di scatto. “Cos’ha Sofia?” sussurrò.

“La mamma piange, non ho capito. Andiamo e vediamo.”

La sera prima non ero passato dal benzinaio, e ora alle pompe c’era fila. Nel weekend, tutti scappavano dalla città.

“E adesso? Perderemo un sacco di tempo,” disse Ginevra disperata.

“Aspetta.” Scesi, presi la tanica dal bagagliaio e tornai con la benzina. In cinque minuti ripartimmo.

“Lei non voleva venire… Siamo stati noi a insistere… Se fosse rimasta con noi, non sarebbe successo niente…” singhiozzò Ginevra.

“Basta!” sbottai. “Mi fai star male. Forse non è così grave. Mia madre esagera sempre.” Ma non ci credevo nemmeno io.

Arrivando al paese, chiamai mamma. Ci attendeva in ospedale. Appena mi vide correre nel corridoio, mi abbracciò, nascondendo il viso sulla mia spalla.

“Non riusciamo a capire niente. Ginevra, sta’ con lei. Io vado a cercare il dottore.”

Lo trovai nell’infermeria, dove fluttuava l’odore del caffè appena fatto.

“Sei il padre? Bene che tu sia qui. L’amico di tua figlia ha una gamba rotta e qualche costola fratturata. Lei, invece, ha un trauma cranico grave. Abbiamo operato, rimosso l’ematoma. Ma non si è ancora svegliata dall’anestesia. Speriamo che il suo giovane corpo reagisca. Vuoi un caffè?”

“Si… riprenderà?” riuscii a dire.

“Abbiamo fatto tutto il possibile. C’è speranza, ma…” fece un gesto vago.

“Dov’è il ragazzo? Quello con cui era in moto?” lo interruppi.

“Al primo piano, nel reparto di ortopedia…”

Corsi giù ed entrai nella stanza. Un ragazzo giovane, con una gambaMi inginocchiai accanto al letto di Sofia, le presi la mano e promisi a me stesso che da quel giorno in poi avrei imparato ad ascoltare di più quel nodo alla gola che mi aveva avvertito fin dall’inizio.

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