**Diario di Antonio Rinaldi**
“Antonio, vieni un attimo!” Il capo mi chiama dall’interfono. Sa di rimprovero, e a ragione. Mi siedo nella stanzetta asettica mentre mi investe: “Ancora! Hai combinato un pasticcio. Verbale di richiamo. E niente bonus trimestrale, ti avevo avvisato! Che ti prende? Ho fatto una promessa a tuo padre, e tu mi fai fare questa figura…” Gennaro Calandrini, caporeparto, sospira, affranto. “Sparisci dalla mia vista. Sei un uomo fatto, Antonio! Pensa. Dove vai a parare? Niente famiglia, niente passioni. Come pensi di vivere?”
Sul regionale per casa, Milano è un pigia pigia. Nemmeno respirare. I colleghi ora saranno a tavola, accolti dalla moglie, dall’odore di sugo. Io? Il vuoto. Solo un desiderio fisso, ultimamente: un bicchiere di vino corposo e poi tuffarmi nel letto. Un tempo uscivo, ero popolare tra le ragazze. Ora? Tutti sposati, impelagati in chiacchiere su nido e ninnoli. Noiosi.
Alla fermata, sbuco a fatica. Una nonnina con le borse della spesa blocca il passaggio. Nel sottopasso tutti spingono. Dove corrono? A venticinque anni correvo anche io. Le ragazze si accalcavano. Avevo già il mio bilocale, lo stipendio decente alla Calletti Meccanica. Pure l’auto, usata, ma tutta mia! Mamma diceva: “Sposati, figliolo! Il volo del tempo è rapido, non sprecarlo con quelle… truccate! Guarda la Giulietta della signora Rossi: una brava ragazza!” Giovane, casalinga. Aiuta la madre, studia infermieristica… e ti guarda, sai?” Io ribattevo: “Mamma, non mi serve una così. Non mi piace, non è il mio tipo.”
Ecco, ci sono cascato. Ora Giulietta preparerà polpette al sugo, insalata di pomodori. Aspetta un marito e bambini che chiedono: “Mamma, quando torna papà?”. A me? Nessuno aspetta. Una volta mi andava bene. Non so quando sia scattato il momento in cui le sbronze mi hanno stufato, mentre io proseguivo per inerzia.
Salgo le scale, cerco la chiave. Non entra. Giro, rigiro nella serratura. All’improvviso, la porta si apre *da dentro*. Mamma, col suo vestaglie fiorito, le guance rosate: “Figliolo, vieni di corsa da noi? Perché non hai chiamato? Sembri sfinito. Stiamo per cenare con tuo padre. Sbrigati, Anto’! Papà! Martino! Vieni ad accogliere tuo figlio, sempre in ritardo!”
Resto pietrificato. Poi papà: “Figlio, credevo portassi la fidanzata! Non vedremo nipoti presto? Colpa mia, babbeo, sposato dopo i quaranta. E tua madre non era più una ragazzina. Tu non tirare… Impara dai miei errori! Le cose vanno fatte al momento giusto! Capito?”
“Capito, papà…” Ho la gola secca. “Grazie a voi… Momento! Ho dimenticato una cosa!” Scatto giù per le scale come un fulmine, fuori dal portone, corro senza voltarmi.
Mi fermo lontano, ansimante. Scruto, timoroso. Ma come? Sceso dal treno… sono andato dalla parte sbagliata? Distratto, le gambe per abitudine mi hanno portato alla casa d’infanzia. Macchinalmente ho salito le scale, ho provato ad aprire… ma non è quello il punto. È che… mi giro.
Dovevo vedere il palazzo di quattro piani. Non c’è. Al suo posto, un’aiuola. L’avevano demolito tre anni fa. Papà e mamma… se ne sono andati cinque anni or sono. Ho venduto il loro appartamento, chiuso il mutuo sulla mia casa, comprato l’auto, messo le lapidi al Cimitero Monumentale. Cos’è stato? Dove sono finito? Come ho potuto vederli così nitidi… così vivi?
È stato un delirio? Sono sconvolto. Arrivo a casa, fisso il mio riflesso allo specchio. Doccia rapida, tuta, scarpe da ginnastica. Esco. Hanno demolito la vecchia palazzina? Gli inquilini li hanno trasferiti in un nuovo complesso qui vicino. Dieci minuti dall’episodio. Non è detto che la vedrò. Giulietta sarà sicuramente sposata, è più giovane di me. Eppure… voglio sapere. Trovarla. Vedere il marito, i bambini. Confermare di averla persa. Che per me non c’è speranza. E se Giulietta fosse sola? A questa domanda, per ora, non ho risposta.
Da quella sera, passo ogni giorno dopo il lavoro per il cortile di Giulietta. Invano. Probabilmente non abita più qui. Sposata, trasferita. Cercare notizie? Non voglio. Destino.
Sabato: l’ultima volta. Che idea assurda, è colpa della visione! Attraverso il cortile. Mamme alla zona giochi. Giulietta? Non si vede. Sebbene… in tanti anni. Due ragazze chiacchierano. Una col bimbo, l’altra si stacca: “Mah, Marinella, ci sentiamo!” “Ciao, Giuly! Piccolo, saluta Giuly!”
Mi concentro. È lei? Sì! Non alta, non magrissima, non con gambe lunghissime. Non bionda ossigenata, bocca a cuore, capelli lisci lunghi. Mi piacevano quelle. Ora mi sembrano tutte uguali. Lei è normale… è proprio ciò che serve! Mi avvicino. “Giulietta?”
Si gira. Non mi riconosce. Poi lo sguardo si scalda. “Antonio? Tu qui?”
“Beh… abito vicino. Passavo. E tu? Occupata? Di corsa dal marito?” Non tergiverso. Giulietta sorride da bambina in attesa della sorpresa: “No, non corro da nessuna parte. Marito? Per ora nessuno, perché?”
La voce è frizzante, quasi provocatoria. Sento che è felice di vedermi! Molto! “Giulietta, allora… due passi insieme? La guardo e avverto un’attesa improvvisa. Qualcosa di meraviglioso, gioioso. Come se il primo sole di primavera sfondasse le nuvole.
Non mi sbaglio. Aveva ragione mamma. Giul
Mentre guardava l’azienda delle kefir dietro casa di Chiara, Antonio sentì un calore familiare: forse non era solo magia, ma la vita che finalmente sorrideva al suo nuovo inizio.
Antonio sentiva un tremore di felicità quando Chiara gli sussurrò che presto avrebbero battezzato il loro bambino nella chiesa dove avevano acceso una candela per i suoi genitori.