Non parlo con mia madre da quattro anni e non me ne vergogno.

Sono quattro anni che non parlo con mia madre. E no, non mi vergogno affatto.

Quando mi sono sposata, avevo appena ventidue anni. Io e Marco, mio marito, avevamo appena finito l’università e ci eravamo trasferiti in un piccolo appartamento in affitto, un po’ malconcio ma tutto nostro, nella periferia di Napoli. I soldi erano pochi, ma allora sembrava una sciocchezza: eravamo giovani, innamorati e pieni di sogni per il futuro.

Facevamo qualsiasi lavoro pur di tirare avanti. Marco lavorava senza sosta, faceva il muratore, il fattorino, e di notte vigilava in un magazzino. Nemmeno io stavo con le mani in mano: di mattina lavoravo in un negozio, di sera facevo ripetizioni. Tutto per mettere da parte qualcosa per una casa nostra, anche un monolocale, pure a mutuo.

Passò poco più di un anno. Al compleanno di mia madre, Marco, dopo un brindisi, tirò fuori un’idea: perché non andare a vivere dai miei genitori? Intanto, lui avrebbe fatto una ristrutturazione completa dell’appartamento. Mia madre, a quanto pare, aveva promesso di non chiederci un euro. Io rimasi scioccata: non ne aveva mai parlato prima con me. Ma tutti – mia madre, lui – insisterono: “Sarà meglio, risparmieremo, ci aiuteremo, siamo famiglia.” Alla fine cedetti.

A quel tempo, mia sorella minore, Alessia, aveva già diciotto anni. Era quasi sempre fuori, tra amiche o a dormire da qualcuno. Con Marco non aveva molta confidenza, mentre mia madre ne era entusiasta. Lui era diventato il genero perfetto: metteva le piastrelle, sistemava la carta da parati, riparava i rubinetti. E pure alle vicine, le sue amiche pensionate, dava una mano – non per piacere, ma perché glielo chiedeva mia madre.

Mio padre era sollevato: finalmente nessuno lo obbligava più a sistemare armadi o aggiustare tubi nelle case degli altri.

Con Alessia, però, i rapporti si erano incrociati. Mi attaccava per qualsiasi cosa, montava scenate dal nulla. Io cercavo di ignorare, capivo che voleva cacciarci. E tacevo.

Una venerdì sera, i miei genitori andarono in campagna, e io e Marco restammo soli in casa. Lui stava rifinendo il pavimento in cucina, io lavavo le finestre. Ad un certo punto, Alessia portò a casa un ragazzo. Aveva un’aria che metteva paura all’angolo della strada: trasandato, giacca spiegazzata, scarpe sporche. Stettero nella sua stanza per ore, poi uscirono. Io, da adulta, non dissi nulla – pensai, sarebbe stata responsabilità sua.

La sera dopo, mio padre scoprì che erano spariti dei soldi – una bella somma, messa da parte per riparare la macchina. Mia madre, ovviamente, saltò addosso ad Alessia, e io – da stupida! – parlai dell’”ospite”. Credevo che avrebbero risolto con giustizia.

Ma sapete chi finì per essere colpevole? Io.

“Perché non me l’hai detto?!” urlò mia madre. “Gliel’ho ripetuto mille volte – niente di portare ragazzi in casa! E se fosse rimasta incinta, te ne saresti occupata tu?”

Provai a spiegare che aveva diciotto anni, che non ero la sua madre né la sua babysitter. Ma lei non ascoltava. A un certo punto, ci cacciò fuori di casa, me e Marco. Senza spiegazioni. Gridando:

“Basta! Voi mi avete stancato! Avete finito i lavori? Bene. Ora fuori dai piedi!”

Mio padre restò in un angolo, muto, poi venne la sua volta:

“Se tu sapessi fare qualcosa, non avrei avuto bisogno di tuo genero!”

Fine. Ce ne andammo. Marco non parlò. Io piansi.

Mia madre chiamò dopo, chiedendoci di tornare. Non risposi. E da allora, non ho più risposto. Sono passati quattro anni.

RicominciaOra abbiamo una nostra casa, piccola ma piena di amore, e questa volta nessuno potrà cacciarcene via.

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