«Non osare toccare le cose di mia madre», disse Davide.
«Questi abiti sono della mia mamma. Perché li hai messi da parte?» chiese, ma la sua voce ormai pareva estranea.
«Li buttiamo. A cosa ci servono, Davide? Occupano mezzo armadio e io ho bisogno di spazio: vorrei sistemarci coperte invernali e cuscini di riserva. In casa nostra regna sempre il caos.»
Caterina, con un’espressione pratica in volto, continuava a togliere dagli appendiabiti maglioncini, gonne e leggeri vestiti che erano stati della sua suocera, la defunta Maria Antonietta. Maria Antonietta aveva sempre curato che i suoi abiti fossero ordinati e ben riposti; aveva educato così anche il figlio. Invece, nei guardaroba di Caterina regnava il disordine: ogni mattina si immergeva nei ripiani a cercare una maglia, si lamentava di non avere nulla da mettere e finiva per stirare durgenza i vestiti stropicciati, che sembravano sempre messi male.
Era passato solo un mese da quando Davide aveva accompagnato la madre nellultimo viaggio. Maria Antonietta aveva bisogno di cure, ormai palliative, e soprattutto di serenità. Il male incurabile era avanzato veloce. Davide laveva portata con sé e in poche settimane la mamma si era spenta. Ora, rientrato da lavoro, si trovava davanti i suoi indumenti buttati a terra nel corridoio, come fossero roba inutile. Rimase senza parole. Possibile che fosse tutto qui? Così si trattava il ricordo di sua madre? Gettare via e dimenticare?
«Perché mi guardi come Garibaldi al nemico?» sbottò Caterina, allontanandosi.
«Non toccare quelle cose», Davide sibilò tra i denti, sentendo il sangue salire violento alla testa fino a fargli perdere sensibilità nelle mani.
«Sono solo vecchi stracci!» urlò Caterina, ormai furiosa. «Vuoi forse trasformare casa nostra in un museo? Tua madre non cè più, Davide, accettalo! Magari lavessi accudita così quando era viva, lavessi visitata più spesso… Forse ti saresti accorto della sua malattia!»
Quelle parole colpirono Davide come una frustata.
«Vattene, prima che faccia qualcosa di cui potrei pentirmi» riuscì a sussurrare con voce tremante.
Caterina fece una smorfia: «Va bene, fai pure il drammatico.»
Per Caterina, chiunque avesse idee diverse dalle sue era immediatamente pazzo.
Senza togliersi le scarpe, Davide andò nel ripostiglio dellingresso, aprì gli sportelli più in alto e, aiutandosi con uno sgabello, prese una grande borsa scozzese ne avevano diverse, usate durante il trasloco. Sistemò dentro tutti gli abiti di Maria Antonietta, piegandoli con cura in piccoli rettangoli. Da ultimo mise la giacca e una busta con le sue scarpe. Il figlioletto, Matteo, tre anni, gli stava intorno e lo aiutava, aggiungendo persino il suo trattorino giocattolo nella borsa. Alla fine, Davide frugò nel cassetto dellingresso, trovò una chiave e la mise in tasca.
«Papà, dove vai?» chiese il piccolo.
Davide gli sorrise amaramente, già afferrando la maniglia della porta di casa.
«Torno presto, tesoro. Vai da mamma.»
«Aspetta!» si allarmò Caterina, ricomparendo sulla soglia del salotto. «Vai via? E la cena?»
«No, grazie. Ho già abbastanza delle tue gentilezze verso mia madre.»
«Ma dai, ti scaldi sempre per nulla! Torna qui, dove credi di andare a questora?»
Senza rispondere, Davide uscì con la borsa. Sistemò il bagaglio in macchina, mise in moto e lasciò la città, puntando verso la tangenziale di Milano. Guidava immerso nei pensieri, ignorando la strada, tutto il resto era scomparso: i progetti di lavoro, le vacanze estive, le chat divertenti sui social che ogni tanto consultava per distrarsi. Ora nella sua mente cera un solo pensiero che assorbiva tutto: ogni disagio, ogni dettaglio insignificante svaniva nel fuoco incandescente di una giusta rabbia. Le uniche cose rimaste che importavano davvero erano i figli, la moglie… e sua madre. Si sentiva colpevole per la fine della mamma: non era stato presente, sempre preso da mille impegni e preoccupazioni. Lei, discreta, non voleva essere dintralcio, e lui aveva rimandato troppe volte una visita, aveva telefonato di rado, sempre più frettolosamente.
Dopo unora e mezzo si fermò in una trattoria vicino a Pavia, mangiò qualcosa in fretta e ripartì, guidando altre due ore senza fermarsi. Solo una volta, attratto dallo spettacolo del tramonto: il cielo, da grigio che era, fu squarciato a ovest da larghe crepe vermiglie sembrava che il sole, stanco, non volesse staccarsi dallorizzonte. Col buio, arrivò finalmente nel suo paese natale, seguì alcune stradine sterrate fino in fondo e si fermò davanti alla casa di famiglia, quella dove era cresciuto.
Nelloscurità si distingueva a malapena il cancello. Davide armeggiò con il chiavistello usando la luce del telefono: cinque chiamate perse di Caterina. No, quella sera non avrebbe risposto a nessuno. Lascio il telefono in silenzioso. Nellaria, il profumo dolce e intenso dei glicini in fiore attirava le falene; i fiori avevano un pallore lunare. Nei vetri appannati si rifletteva il cielo scuro. Trovò le chiavi, aprì la prima porta, accese una lampadina polverosa.
Sulla soglia, le ciabatte di sua madre, quelle per andare in giardino. Accanto alla seconda porta che immetteva nelle stanze, le pantofole di casa: blu, consumate, con due piccoli coniglietti rossi davanti. Gliele aveva regalate lui otto anni prima. Restò impalato, poi scosse la testa e infilò la chiave.
Ciao, mamma, mi stavi aspettando?
No, ormai in quella casa più nessuno lo aspettava.
Lodore era quello di vecchi mobili italiani e un po di umido di cantina. La casa si impregnava dumidità e bisognava riscaldarla spesso per evitare la muffa. Sul comò cerano una spazzola, alcuni prodotti per il viso e accanto, appesa, una busta con scorte di pasta col bollino offerta speciale. Nel soggiorno spiccava il divano nuovo lo aveva preso lui, con la televisione. In cucina, il frigo aperto e vuoto tradiva lassenza di vita. Nella camera di mamma, il letto con la solita montagna di cuscini, coperti da un copriletto ricamato. Davide si sedette sul bordo.
Quella stanza era stata sua da ragazzo; i genitori dormivano in quella grande. Allora il suo letto era vicino a quello del fratello. Cera anche una scrivania sotto la finestra. Anni dopo, quel posto era stato preso da una macchina da cucire la passione di sua madre. Il secondo lettino era stato sostituito da un armadio per gli oggetti più cari.
Davide rimaneva in silenzio, fissando quellarmadio come se fosse un fantasma. Lo sguardo fisso, le mani nei capelli, si chinò finché non affondò il volto sulle ginocchia, tremando. Si lasciò cadere sulla coperta e iniziò a piangere.
Piangeva per non aver trovato le parole, quando la mamma gli aveva tenuto la mano nellultimo giorno. Era rimasto muto, quasi di pietra, mentre lei lo guardava e gli sussurrava: «Va bene così, Davide, non mi guardare con quegli occhi… Sono stata felice con voi». Lui avrebbe voluto ringraziarla per linfanzia serena, per tutto lamore, per i sacrifici e il calore della casa, per quella sicurezza che è il fondamento di ogni cosa. Un grazie semplice per quellisola dove sempre si poteva tornare, per essere attesi e amati, indifferenti agli sbagli.
Ma era rimasto zitto: a volte, tra tutte le parole possibili, non si sa quali scegliere. Quelle che arrivano alla mente paiono sempre troppo enfatiche, fuori tempo. Il nostro tempo fatica a trovare le parole dellamore, ma è maestro in cinismo e frasi vuote.
Spense le luci, si sdraiò così comera senza neppure disfare il letto, coprendosi con una coperta di lana trovata su una sedia e si addormentò di colpo. Non si sarebbe mai aspettato di dormire così bene. Alle sette era di nuovo in piedi, come al solito, senza sveglia: il corpo ha i suoi orologi e non perdona.
Uscì verso lauto, andò a prendere la borsa. I pioppi, vestiti di foglie appena nate, si allineavano oltre la staccionata e sembravano giovani damigelle di primavera. I loro rami raccoglievano il sole che si rafforzava poco a poco. Davide si fermò sulla soglia, respirò laria frizzante e pensò a quanto fosse stato fortunato, da ragazzo, a crescere in campagna. Si stiracchiò, poi rientrò e trascinò la borsa fino allarmadio della mamma.
Uno dopo laltro estrasse i suoi abiti e li sistemò con cura sui ripiani, oppure li appese alle grucce «spalliere», come le chiamava lei. Scarpe e stivaletti in basso. Quando tutto fu in ordine, fece un passo indietro per valutare la perfezione. Gli sembrava quasi di vederla: in quei vestiti, sorridente. Quel sorriso materno che diceva ti voglio bene senza bisogno di parole. Passò una mano tra camicette e vestiti, poi li abbracciò tutti insieme, respirando il profumo che gli era così famigliare. Rimase lì fermo, senza sapere che fare daltro. Dimprovviso si riscosse, tornò al presente e prese il cellulare.
«Salve, dottor Mancini. Oggi non posso venire a lavoro, ho una cosa urgente in famiglia. Ce la fate senza di me? Grazie.»
Scrisse anche alla moglie: «Scusa se ho perso la calma, torno questa sera. Un bacio.»
In giardino fiorivano i narcisi, mentre i tulipani cominciavano appena ad aprire i bocci. Davide ne raccolse un mazzo, ci aggiunse dei mughetti dal fondo dellorto. Ne suddivise i fiori in tre piccoli mazzi: al cimitero lo aspettavano in tre. Alluscita del paese si fermò in un negozietto per comprare pane e latte, e prese anche una tavoletta di cioccolato.
«Ma guarda un po, Davide! Di nuovo qui?» si stupì la signora Rosalba, la bottegaia.
«Eh Sono venuto dalla mamma», rispose lui, sorridendo a fatica.
«Capisco. Vuoi un po di stracchino fresco? Lo prendo dal contadino, tua madre lo prendeva sempre.»
La fissò. Si stava prendendo gioco di lui? No, era semplicemente una persona genuina.
«Va bene, grazie… E tu, come va, zia Rosalba?»
«Eh, meglio non chiedere. Luigi mio continua a bere e a non combinare nulla.»
Davide fece colazione al cimitero, davanti alle loro tombe. I mazzi di narcisi, mughetti e tulipani ognuno al proprio posto: il fratello Lorenzo, il padre Marcello e la madre. Il fratello era morto molto giovane, cadendo dal tetto mentre aggiustava le tegole: un attimo e la vita spezzata a ventanni. Poi, cinque anni prima, se nera andato anche il padre; ora la mamma. Ad ognuno lasciò un pezzetto di cioccolato, alla madre anche uno di stracchino. Le fotografie sulle lapidi sorridevano mute.
Iniziò a ricordare: le monellerie con Lorenzo, le uscite allalba con il papà a pescare tinche e anguille. Il padre lanciava la canna come un cowboy, la mamma lo chiamava a pranzo con una voce che risuonava per chilometri che vergogna, allora! Se solo potesse sentirla adesso.
Accarezzò il croce temporanea sulla tomba della mamma. La terra era ancora fresca, nera sotto quella luce del mattino.
«Mamma, perdonami… Non ti ho saputo accudire. Vivevamo ognuno per conto suo, eppure senza di te è tutto così vuoto! Quante cose vorrei dirti adesso. Anche a te, papà. Siete stati i migliori genitori che potessi avere, vi ringrazio con tutto il cuore. Come ci siete riusciti? Io e Caterina non valiamo nemmeno la metà. Siamo egoisti, sempre pensiamo solo a noi stessi. Grazie di tutto. E anche a te, Lorenzo.»
Era ora di andare. Passeggiando per una stradina di campagna, Davide staccava fili derba tenera e li masticava come faceva da ragazzino. Sulla prima via incontrò Luigi, il figlio della bottegaia; era già ubriaco di prima mattina e cadeva a pezzi.
«Ehi, Davide! Sei ancora qui?» farfugliò.
«Sì Sono passato dai miei. E tu bevi ancora?»
«Ci mancherebbe, oggi è festa!»
«E che festa sarebbe?»
Improvvisamente Luigi tirò fuori dalla tasca un calendario a strappo rimasto fermo al giorno prima, lo sfogliò: «Oggi è la Giornata mondiale della tartaruga!», lesse soddisfatto, come fosse una grande notizia.
Davide sospirò. «Senti Luigi, tua madre è una persona doro. Non sarà eterna. Ricordalo.»
E riprese il cammino, lasciando Luigi confuso. Questi però si riscosse e gli gridò dietro: «Ok Va bene, Davide. Stammi bene!»
«Ciao, Luigi», rispose Davide senza voltarsi.
Dietro ogni oggetto rimasto, si cela il cuore di chi ci ha amati. Il rispetto per il passato e la gratitudine per lamore ricevuto sono i doni più importanti che possiamo portare con noi. Senza questi sentimenti, la nostra vita resta vuota.






