«Non permetterti mai di toccare le cose di mia madre», disse mio marito — Quei vestiti sono proprietà di mia madre. Perché li hai raccolti? — chiese mio marito, con una voce che quasi non sembrava più la sua. — Li butteremo. A che ci servono, Slavo? Occupano mezzo armadio e io ho bisogno di spazio: vorrei sistemare lì le coperte invernali e i cuscini di ricambio. È tutto sparso in giro per casa. Olga, con fare pratico, continuava a togliere dagli appendiabiti le modeste camicie, gonne e vestitini leggeri della sua defunta suocera. Valentina Ivanovna era abituata ad ordinare con cura i suoi abiti per mantenerli in ordine, abitudine trasmessa anche al figlio. Ma negli armadi di Olga regnava sempre il caos: ogni mattina rovistava tra le mensole in cerca della maglia o camicetta giusta, si lamentava di non aver mai nulla da mettere e poi si industriava a stirare alla veloce le maglie stropicciate; sembravano uscite dalla bocca di una mucca. Erano passate solo tre settimane da quando Slavo aveva accompagnato sua madre nell’ultimo viaggio. Valentina Ivanovna avrebbe avuto bisogno di cure — quasi inutili a quel punto — e di tranquillità. Il cancro in fase terminale avanzava inesorabile. Slavo aveva portato la madre a casa sua. La malattia se l’era portata via in un mese soltanto. Ora, rientrato dal lavoro, trovava i suoi vestiti buttati a caso in corridoio come fossero spazzatura, e rimaneva impietrito. Tutto qui? Così si liquidava sua madre? Buttando via tutto per dimenticare? — Ma che hai da guardarmi come se fossi Lenin davanti ai borghesi? — indietreggiò Olga. — Non osare toccare quelle cose, — sibilò tra i denti Slavo. Il sangue gli affluiva alla testa così violentemente che per un attimo perse la sensibilità in mani e gambe. — Ma che ce ne facciamo di tutta questa roba vecchia! — sbottò Olga, iniziando ad agitarsi, — Vuoi forse trasformare la casa in un museo? Tua madre non c’è più, accettalo! Avresti dovuto occupartene di più quando era viva. Andavi a trovarla poco: magari avresti saputo prima quanto stava male! Slavo sobbalzò a quelle parole, come se fosse stato frustato. — Vai via, prima che ti faccia qualcosa di cui potrei pentirmi, — mormorò con voce rotta. Olga sbuffò: — Vai pure. Sei fuori di testa… Per Olga uno era subito “fuori di testa” se solo osava avere un’opinione diversa dalla sua. Slavo, senza togliersi le scarpe, camminò verso l’armadio dell’ingresso, spalancò le ante in alto e, salito su una sedia, prese una delle borse zigrinate che loro avevano usato per il trasloco nella nuova casa. Accuratamente, non a caso, sistemò tutti gli abiti di Valentina Ivanovna in geometrici rettangoli ordinati. Sopra mise la giacca e un sacchetto con le sue scarpe. Il più piccolo, suo figlio di tre anni, gli girava intorno e perfino infilò nella borsa il suo trattorino di plastica. Alla fine, Slavo cercò un mazzo di chiavi nel cassetto dell’ingresso e lo mise in tasca. — Papà, dove vai? Slavo sorrise amaramente, afferrando la maniglia della porta. — Torno presto, tesoro. Vai dalla mamma. — Aspetta! — si allarmò Olga, comparendo sulla soglia del salotto, — Te ne vai? Dove? E la cena? — Per me basta già così la tua considerazione verso mia madre. — Ma smettila! Come fai a innervosirti così, senza motivo? Allora? Dove dovresti andare a quest’ora? Slavo, senza voltarsi, uscì col borsone. Mise in moto la macchina, uscì dal cortile e si avviò verso la Tangenziale. Guidava, lasciava che il rumore della strada coprisse la confusione dei pensieri: ormai tutto il resto si era ridotto a un dettaglio insignificante, lavori, progetti estivi, perfino quelle pagine ironiche su Facebook che tanto amava per rilassarsi. Nella mente si faceva largo una sola, lenta e dolorosa consapevolezza e solo attraverso il suo filtro la vita prendeva significato. Tutto il resto bruciava e si allontanava; a restare vivo e intatto era solo ciò che contava davvero — i figli, la moglie… e la mamma. Si incolpava per la sua morte — non aveva fatto abbastanza, sempre troppo impegnato, troppe cose, troppe distrazioni. E la madre che non voleva gravare su di lui, non voleva essere un peso, e lui aveva rimandato, chiamato di meno, ascoltato ancora meno; accorciando conversazioni già troppo corte. Dopo un terzo del viaggio si fermò a una trattoria; mangiò qualcosa e poi guidò per altre tre ore senza sosta. Notò il tramonto solo quando il cielo, all’improvviso, si lacerò in lunghe crepe rosse, come se il sole non volesse mollare la presa sull’orizzonte. Arrivò al paese ormai buio; si perse tra le stradine non asfaltate fino in fondo, poi spense il motore davanti alla casa materna. La casa dov’era cresciuto. Nella notte non si distingueva quasi nulla. Slavo armeggiò con il cancello illuminandosi col cellulare — cinque chiamate perse della moglie. No, quella sera non avrebbe chiamato nessuno. Meglio lasciar spento il telefono ancora. L’odore intenso dei fiori di ciliegio, l’attrazione delle falene notturne, i loro petali bianchissimi nel buio. La casa rifletteva il cielo offuscato sui vetri. Slavo trovò la chiave, aprì la porta e nel vestibolo accese la vecchia lampadina. Vicino all’ingresso, le ciabatte per il cortile della mamma. Accanto all’altra porta, che portava alle camere, le sue pantofole blu, consumate, con due conigli rossi ricamati. Gliel’aveva regalate otto anni prima. Si fermò a guardarle, poi scosse la testa e infilò la chiave nell’altra porta. Ciao, mamma… stavi aspettando me? No. In quella casa ormai nessuno aspettava più il suo ritorno. Odorava di vecchi mobili e di un po’ di muffa, come se tirasse dal seminterrato. La casa si inumidiva in fretta e bisognava tenerla sempre accesa; altrimenti veniva la muffa. Sul comò: la spazzola, pochi trucchi. Vicino, una busta di plastica trasparente con una scorta di pasta “prezzo rosso”. Nel salotto solo il divano e la TV nuova mostravano il tocco di Slavo per la madre. La porta del frigo lasciata socchiusa in cucina trasmetteva un senso di abbandono. La stanza della mamma — il suo letto ricoperto da una coperta bianca a piramide di cuscini. Slavo si sedette sul bordo. Quella un tempo era la sua camera, i genitori dormivano nella più grande. Allora c’erano due letti accostati al muro, uno per il fratellino. E anche una scrivania davanti alla finestra. Ora tutto sostituito con una macchina da cucire — la mamma amava cucire e ricamare. Al posto dell’altro letto: il guardaroba dove sistemava le cose più care. Slavo rimase seduto, fissando il mobile come davanti al fantasma di sua madre. Lo sguardo fisso. Si chiuse la testa tra le mani e si piegò in due, fra le ginocchia. Scosso dai singhiozzi, rovinò sulla coperta candida… e scoppiò a piangere. Pianse perché non aveva saputo risponderle l’ultima volta che lei gli aveva stretto la mano. Era rimasto a fissarla come una statua, la vide spegnersi, e le migliaia di parole mai dette gli restavano strette in gola. La madre aveva sussurrato: «Non guardarmi così, Slavo… Sono stata felice con voi». E lui voleva, voleva ringraziarla per l’infanzia serena, per i sacrifici, l’amore, il calore di casa, per aver creato un rifugio solido… Anche solo per dirle grazie per la base sicura dalla quale ora partiva, il luogo dove tornare, il posto dove sei sempre accolto anche se sbagli. Ma era rimasto lì di pietra a guardarla, senza trovare le parole. A volte, dentro tutte le ricchezze della lingua, è difficile sceglierne una che non sembri ridicola o fuori tempo. Quelle che venivano in mente suonavano fuori moda, enfatiche da far vergognare. Era come se appartenessero a un’altra epoca, troppo antiquate per i nostri tempi. Tempi che non hanno saputo inventare parole nuove per sentimenti antichi, ma sono maestri in cinismo e pose. Spense tutte le luci, si gettò vestito sul letto senza sgualcire le coperte, trovò una coperta di lana sulla sedia e si addormentò subito. Non pensava che avrebbe dormito così bene. Alle sette del mattino si svegliò come sempre. Che strano meccanismo il corpo: qualsiasi ora si vada a letto, alle sette ci si sveglia come per magia, come quando bisogna prepararsi per andare al lavoro. Uscì a prendere la borsa in auto. Mentre raccoglieva il piumone, notò le betulle di fronte a casa, allineate dietro la staccionata, luminose nello splendore di maggio, come damigelle di primavera. La luce sui rami si rafforzava, pronta a riscaldare ogni zolla. Slavo si soffermò sul portico. Il canto degli uccelli, l’aria pulita… Che benessere! E che fortuna, pensava, essere cresciuto qui e non in città tra il cemento. Si stiracchiò, scaricò la borsa e la trascinò fino all’armadio della madre. Uno a uno prese gli abiti dalla borsa, li sistemò piegati o li appese alle grucce — come sua madre aveva insegnato. Le scarpe, sistemate in basso. Quando finì, indietreggiò per riguardare il risultato. Gli sembrò di vederla, sua madre, indossare quegli stessi abiti, sempre col sorriso dolce che lo diceva senza parlare — ti voglio bene. Slavo passò la mano tra le camicette, i vestiti, li abbracciò e respirò il loro profumo… Rimase lì, incapace di decidersi su cosa fare dopo. Poi si riscattò, tornò al presente e prese il telefono. — Pronto, dottor Arturo. Oggi non vengo in ufficio. Questione urgente, di famiglia. Ce la fate senza di me? Grazie. Alla moglie scrisse: “Scusa se ho perso la calma ieri. Torno stasera. Un bacio”. Nel vialetto fiorivano narcisi, i tulipani aprivano appena i boccioli. Slavo li raccolse tutti, assieme a un mazzetto di mughetti vicino al ribes. Ricavò tre piccoli mazzi: al cimitero l’aspettavano in tre. Passando davanti al negozio, si ricordò di non aver ancora mangiato. Entrò, comprò latte, una ciabatta e cioccolato. — Oh, Slavo! Di nuovo qui? — si stupì la signora Ivana, la negoziante. — Sì… Sono venuto per la mamma, — mormorò Slavo, abbassando gli occhi. — Capisco. Vuoi un po’ di ricotta fresca? Te la teneva sempre tua mamma, appena arrivava gliela mettevo via. Slavo la fissò. Si stava prendendo gioco di lui? No, la conosceva: era genuina. — No, grazie… Anzi, va bene, me la dia pure. E lei come sta, zia Ivana? Tutto bene? — Meglio non chiedere… — fece un gesto stanco. Lei e Valentina Ivanovna erano buone amiche, — Mio figlio Sergio è sempre più perso, beve troppo. Slavo fece colazione nel cimitero, davanti alle fotografie sui marmi. Tre piccoli mazzi di fiori accanto: narcisi, mughetti e tulipani. Fratello, padre, madre. Il fratellino era morto giovane cadendo dal tetto; il padre era mancato cinque anni prima. E ora anche la mamma. Slavo lasciò un pezzo di cioccolata a ognuno e un tocco di ricotta sulla tomba della madre. Nei suoi pensieri chiacchierava con loro. Rivide le birichinate con il fratello. Ricordava con precisione mattinate di pesca all’alba con il padre; l’abilità paterna nel lanciare la canna. E la mamma! Quando strillava in tutta la campagna: «Slaaaavo, a taaaavola!». La voce inconfondibile, si sentiva a chilometri di distanza. Che vergogna provava davanti agli amici… E ora? Pagherebbe per sentirla chiamare così ancora una volta. Si fermò a sfiorare la croce provvisoria sulla tomba della madre. La terra era ancora fresca. «Mamma, perdonami… Non sono riuscito a starti vicino. Viviamo staccati, eppure senza di te la vita è vuota. Avrei tanto da dirti, anche a te, papà. Siete stati i genitori migliori del mondo… come avete fatto? Noi con Olga non ci riusciamo, siamo egoisti, solo io, io, mio, voglio… Grazie di tutto. Anche a te, fratellino, grazie». Era l’ora di andare. Percorrendo il sentiero, Slavo masticava gli steli giovani d’erba. Alla prima strada incrociò Sergio, il figlio della negoziante, già ubriaco fradicio, un relitto. — Oh, Slavo! Ancora qui? — biascicò Sergio. — Sì… A trovare i miei. E tu, sempre a bere? — Ma certo! Oggi è giorno speciale. — Ah sì? Che festa mai sarebbe? Sergio tirò fuori un calendario da tasca e mostrò la data appena staccata. — Giornata mondiale della tartaruga! Vedi? — e annuì soddisfatto. — Sì, certo… — Slavo ironizzò. — Senti, Sergio… Tieniti stretta tua madre. È una persona d’oro, non vivrà per sempre. Ricordatelo. Poi proseguì lasciando indietro l’ex amico ancora sbalordito. E quello riuscì appena a bofonchiare: — Va bene… Stammi bene, Slavo. — Sì, stammi… addio, — rispose Slavo senza voltarsi.

«Non osare toccare le cose di mia madre», disse Davide.

«Questi abiti sono della mia mamma. Perché li hai messi da parte?» chiese, ma la sua voce ormai pareva estranea.

«Li buttiamo. A cosa ci servono, Davide? Occupano mezzo armadio e io ho bisogno di spazio: vorrei sistemarci coperte invernali e cuscini di riserva. In casa nostra regna sempre il caos.»

Caterina, con un’espressione pratica in volto, continuava a togliere dagli appendiabiti maglioncini, gonne e leggeri vestiti che erano stati della sua suocera, la defunta Maria Antonietta. Maria Antonietta aveva sempre curato che i suoi abiti fossero ordinati e ben riposti; aveva educato così anche il figlio. Invece, nei guardaroba di Caterina regnava il disordine: ogni mattina si immergeva nei ripiani a cercare una maglia, si lamentava di non avere nulla da mettere e finiva per stirare durgenza i vestiti stropicciati, che sembravano sempre messi male.

Era passato solo un mese da quando Davide aveva accompagnato la madre nellultimo viaggio. Maria Antonietta aveva bisogno di cure, ormai palliative, e soprattutto di serenità. Il male incurabile era avanzato veloce. Davide laveva portata con sé e in poche settimane la mamma si era spenta. Ora, rientrato da lavoro, si trovava davanti i suoi indumenti buttati a terra nel corridoio, come fossero roba inutile. Rimase senza parole. Possibile che fosse tutto qui? Così si trattava il ricordo di sua madre? Gettare via e dimenticare?

«Perché mi guardi come Garibaldi al nemico?» sbottò Caterina, allontanandosi.

«Non toccare quelle cose», Davide sibilò tra i denti, sentendo il sangue salire violento alla testa fino a fargli perdere sensibilità nelle mani.

«Sono solo vecchi stracci!» urlò Caterina, ormai furiosa. «Vuoi forse trasformare casa nostra in un museo? Tua madre non cè più, Davide, accettalo! Magari lavessi accudita così quando era viva, lavessi visitata più spesso… Forse ti saresti accorto della sua malattia!»

Quelle parole colpirono Davide come una frustata.

«Vattene, prima che faccia qualcosa di cui potrei pentirmi» riuscì a sussurrare con voce tremante.

Caterina fece una smorfia: «Va bene, fai pure il drammatico.»

Per Caterina, chiunque avesse idee diverse dalle sue era immediatamente pazzo.

Senza togliersi le scarpe, Davide andò nel ripostiglio dellingresso, aprì gli sportelli più in alto e, aiutandosi con uno sgabello, prese una grande borsa scozzese ne avevano diverse, usate durante il trasloco. Sistemò dentro tutti gli abiti di Maria Antonietta, piegandoli con cura in piccoli rettangoli. Da ultimo mise la giacca e una busta con le sue scarpe. Il figlioletto, Matteo, tre anni, gli stava intorno e lo aiutava, aggiungendo persino il suo trattorino giocattolo nella borsa. Alla fine, Davide frugò nel cassetto dellingresso, trovò una chiave e la mise in tasca.

«Papà, dove vai?» chiese il piccolo.

Davide gli sorrise amaramente, già afferrando la maniglia della porta di casa.

«Torno presto, tesoro. Vai da mamma.»

«Aspetta!» si allarmò Caterina, ricomparendo sulla soglia del salotto. «Vai via? E la cena?»

«No, grazie. Ho già abbastanza delle tue gentilezze verso mia madre.»

«Ma dai, ti scaldi sempre per nulla! Torna qui, dove credi di andare a questora?»

Senza rispondere, Davide uscì con la borsa. Sistemò il bagaglio in macchina, mise in moto e lasciò la città, puntando verso la tangenziale di Milano. Guidava immerso nei pensieri, ignorando la strada, tutto il resto era scomparso: i progetti di lavoro, le vacanze estive, le chat divertenti sui social che ogni tanto consultava per distrarsi. Ora nella sua mente cera un solo pensiero che assorbiva tutto: ogni disagio, ogni dettaglio insignificante svaniva nel fuoco incandescente di una giusta rabbia. Le uniche cose rimaste che importavano davvero erano i figli, la moglie… e sua madre. Si sentiva colpevole per la fine della mamma: non era stato presente, sempre preso da mille impegni e preoccupazioni. Lei, discreta, non voleva essere dintralcio, e lui aveva rimandato troppe volte una visita, aveva telefonato di rado, sempre più frettolosamente.

Dopo unora e mezzo si fermò in una trattoria vicino a Pavia, mangiò qualcosa in fretta e ripartì, guidando altre due ore senza fermarsi. Solo una volta, attratto dallo spettacolo del tramonto: il cielo, da grigio che era, fu squarciato a ovest da larghe crepe vermiglie sembrava che il sole, stanco, non volesse staccarsi dallorizzonte. Col buio, arrivò finalmente nel suo paese natale, seguì alcune stradine sterrate fino in fondo e si fermò davanti alla casa di famiglia, quella dove era cresciuto.

Nelloscurità si distingueva a malapena il cancello. Davide armeggiò con il chiavistello usando la luce del telefono: cinque chiamate perse di Caterina. No, quella sera non avrebbe risposto a nessuno. Lascio il telefono in silenzioso. Nellaria, il profumo dolce e intenso dei glicini in fiore attirava le falene; i fiori avevano un pallore lunare. Nei vetri appannati si rifletteva il cielo scuro. Trovò le chiavi, aprì la prima porta, accese una lampadina polverosa.

Sulla soglia, le ciabatte di sua madre, quelle per andare in giardino. Accanto alla seconda porta che immetteva nelle stanze, le pantofole di casa: blu, consumate, con due piccoli coniglietti rossi davanti. Gliele aveva regalate lui otto anni prima. Restò impalato, poi scosse la testa e infilò la chiave.

Ciao, mamma, mi stavi aspettando?

No, ormai in quella casa più nessuno lo aspettava.

Lodore era quello di vecchi mobili italiani e un po di umido di cantina. La casa si impregnava dumidità e bisognava riscaldarla spesso per evitare la muffa. Sul comò cerano una spazzola, alcuni prodotti per il viso e accanto, appesa, una busta con scorte di pasta col bollino offerta speciale. Nel soggiorno spiccava il divano nuovo lo aveva preso lui, con la televisione. In cucina, il frigo aperto e vuoto tradiva lassenza di vita. Nella camera di mamma, il letto con la solita montagna di cuscini, coperti da un copriletto ricamato. Davide si sedette sul bordo.

Quella stanza era stata sua da ragazzo; i genitori dormivano in quella grande. Allora il suo letto era vicino a quello del fratello. Cera anche una scrivania sotto la finestra. Anni dopo, quel posto era stato preso da una macchina da cucire la passione di sua madre. Il secondo lettino era stato sostituito da un armadio per gli oggetti più cari.

Davide rimaneva in silenzio, fissando quellarmadio come se fosse un fantasma. Lo sguardo fisso, le mani nei capelli, si chinò finché non affondò il volto sulle ginocchia, tremando. Si lasciò cadere sulla coperta e iniziò a piangere.

Piangeva per non aver trovato le parole, quando la mamma gli aveva tenuto la mano nellultimo giorno. Era rimasto muto, quasi di pietra, mentre lei lo guardava e gli sussurrava: «Va bene così, Davide, non mi guardare con quegli occhi… Sono stata felice con voi». Lui avrebbe voluto ringraziarla per linfanzia serena, per tutto lamore, per i sacrifici e il calore della casa, per quella sicurezza che è il fondamento di ogni cosa. Un grazie semplice per quellisola dove sempre si poteva tornare, per essere attesi e amati, indifferenti agli sbagli.

Ma era rimasto zitto: a volte, tra tutte le parole possibili, non si sa quali scegliere. Quelle che arrivano alla mente paiono sempre troppo enfatiche, fuori tempo. Il nostro tempo fatica a trovare le parole dellamore, ma è maestro in cinismo e frasi vuote.

Spense le luci, si sdraiò così comera senza neppure disfare il letto, coprendosi con una coperta di lana trovata su una sedia e si addormentò di colpo. Non si sarebbe mai aspettato di dormire così bene. Alle sette era di nuovo in piedi, come al solito, senza sveglia: il corpo ha i suoi orologi e non perdona.

Uscì verso lauto, andò a prendere la borsa. I pioppi, vestiti di foglie appena nate, si allineavano oltre la staccionata e sembravano giovani damigelle di primavera. I loro rami raccoglievano il sole che si rafforzava poco a poco. Davide si fermò sulla soglia, respirò laria frizzante e pensò a quanto fosse stato fortunato, da ragazzo, a crescere in campagna. Si stiracchiò, poi rientrò e trascinò la borsa fino allarmadio della mamma.

Uno dopo laltro estrasse i suoi abiti e li sistemò con cura sui ripiani, oppure li appese alle grucce «spalliere», come le chiamava lei. Scarpe e stivaletti in basso. Quando tutto fu in ordine, fece un passo indietro per valutare la perfezione. Gli sembrava quasi di vederla: in quei vestiti, sorridente. Quel sorriso materno che diceva ti voglio bene senza bisogno di parole. Passò una mano tra camicette e vestiti, poi li abbracciò tutti insieme, respirando il profumo che gli era così famigliare. Rimase lì fermo, senza sapere che fare daltro. Dimprovviso si riscosse, tornò al presente e prese il cellulare.

«Salve, dottor Mancini. Oggi non posso venire a lavoro, ho una cosa urgente in famiglia. Ce la fate senza di me? Grazie.»

Scrisse anche alla moglie: «Scusa se ho perso la calma, torno questa sera. Un bacio.»

In giardino fiorivano i narcisi, mentre i tulipani cominciavano appena ad aprire i bocci. Davide ne raccolse un mazzo, ci aggiunse dei mughetti dal fondo dellorto. Ne suddivise i fiori in tre piccoli mazzi: al cimitero lo aspettavano in tre. Alluscita del paese si fermò in un negozietto per comprare pane e latte, e prese anche una tavoletta di cioccolato.

«Ma guarda un po, Davide! Di nuovo qui?» si stupì la signora Rosalba, la bottegaia.

«Eh Sono venuto dalla mamma», rispose lui, sorridendo a fatica.

«Capisco. Vuoi un po di stracchino fresco? Lo prendo dal contadino, tua madre lo prendeva sempre.»

La fissò. Si stava prendendo gioco di lui? No, era semplicemente una persona genuina.

«Va bene, grazie… E tu, come va, zia Rosalba?»

«Eh, meglio non chiedere. Luigi mio continua a bere e a non combinare nulla.»

Davide fece colazione al cimitero, davanti alle loro tombe. I mazzi di narcisi, mughetti e tulipani ognuno al proprio posto: il fratello Lorenzo, il padre Marcello e la madre. Il fratello era morto molto giovane, cadendo dal tetto mentre aggiustava le tegole: un attimo e la vita spezzata a ventanni. Poi, cinque anni prima, se nera andato anche il padre; ora la mamma. Ad ognuno lasciò un pezzetto di cioccolato, alla madre anche uno di stracchino. Le fotografie sulle lapidi sorridevano mute.

Iniziò a ricordare: le monellerie con Lorenzo, le uscite allalba con il papà a pescare tinche e anguille. Il padre lanciava la canna come un cowboy, la mamma lo chiamava a pranzo con una voce che risuonava per chilometri che vergogna, allora! Se solo potesse sentirla adesso.

Accarezzò il croce temporanea sulla tomba della mamma. La terra era ancora fresca, nera sotto quella luce del mattino.

«Mamma, perdonami… Non ti ho saputo accudire. Vivevamo ognuno per conto suo, eppure senza di te è tutto così vuoto! Quante cose vorrei dirti adesso. Anche a te, papà. Siete stati i migliori genitori che potessi avere, vi ringrazio con tutto il cuore. Come ci siete riusciti? Io e Caterina non valiamo nemmeno la metà. Siamo egoisti, sempre pensiamo solo a noi stessi. Grazie di tutto. E anche a te, Lorenzo.»

Era ora di andare. Passeggiando per una stradina di campagna, Davide staccava fili derba tenera e li masticava come faceva da ragazzino. Sulla prima via incontrò Luigi, il figlio della bottegaia; era già ubriaco di prima mattina e cadeva a pezzi.

«Ehi, Davide! Sei ancora qui?» farfugliò.

«Sì Sono passato dai miei. E tu bevi ancora?»

«Ci mancherebbe, oggi è festa!»

«E che festa sarebbe?»

Improvvisamente Luigi tirò fuori dalla tasca un calendario a strappo rimasto fermo al giorno prima, lo sfogliò: «Oggi è la Giornata mondiale della tartaruga!», lesse soddisfatto, come fosse una grande notizia.

Davide sospirò. «Senti Luigi, tua madre è una persona doro. Non sarà eterna. Ricordalo.»

E riprese il cammino, lasciando Luigi confuso. Questi però si riscosse e gli gridò dietro: «Ok Va bene, Davide. Stammi bene!»

«Ciao, Luigi», rispose Davide senza voltarsi.

Dietro ogni oggetto rimasto, si cela il cuore di chi ci ha amati. Il rispetto per il passato e la gratitudine per lamore ricevuto sono i doni più importanti che possiamo portare con noi. Senza questi sentimenti, la nostra vita resta vuota.

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Erano passate solo tre settimane da quando Slavo aveva accompagnato sua madre nell’ultimo viaggio. Valentina Ivanovna avrebbe avuto bisogno di cure — quasi inutili a quel punto — e di tranquillità. Il cancro in fase terminale avanzava inesorabile. Slavo aveva portato la madre a casa sua. La malattia se l’era portata via in un mese soltanto. Ora, rientrato dal lavoro, trovava i suoi vestiti buttati a caso in corridoio come fossero spazzatura, e rimaneva impietrito. Tutto qui? Così si liquidava sua madre? Buttando via tutto per dimenticare? — Ma che hai da guardarmi come se fossi Lenin davanti ai borghesi? — indietreggiò Olga. — Non osare toccare quelle cose, — sibilò tra i denti Slavo. Il sangue gli affluiva alla testa così violentemente che per un attimo perse la sensibilità in mani e gambe. — Ma che ce ne facciamo di tutta questa roba vecchia! — sbottò Olga, iniziando ad agitarsi, — Vuoi forse trasformare la casa in un museo? Tua madre non c’è più, accettalo! Avresti dovuto occupartene di più quando era viva. Andavi a trovarla poco: magari avresti saputo prima quanto stava male! Slavo sobbalzò a quelle parole, come se fosse stato frustato. — Vai via, prima che ti faccia qualcosa di cui potrei pentirmi, — mormorò con voce rotta. Olga sbuffò: — Vai pure. Sei fuori di testa… Per Olga uno era subito “fuori di testa” se solo osava avere un’opinione diversa dalla sua. Slavo, senza togliersi le scarpe, camminò verso l’armadio dell’ingresso, spalancò le ante in alto e, salito su una sedia, prese una delle borse zigrinate che loro avevano usato per il trasloco nella nuova casa. Accuratamente, non a caso, sistemò tutti gli abiti di Valentina Ivanovna in geometrici rettangoli ordinati. Sopra mise la giacca e un sacchetto con le sue scarpe. Il più piccolo, suo figlio di tre anni, gli girava intorno e perfino infilò nella borsa il suo trattorino di plastica. Alla fine, Slavo cercò un mazzo di chiavi nel cassetto dell’ingresso e lo mise in tasca. — Papà, dove vai? Slavo sorrise amaramente, afferrando la maniglia della porta. — Torno presto, tesoro. Vai dalla mamma. — Aspetta! — si allarmò Olga, comparendo sulla soglia del salotto, — Te ne vai? Dove? E la cena? — Per me basta già così la tua considerazione verso mia madre. — Ma smettila! Come fai a innervosirti così, senza motivo? Allora? Dove dovresti andare a quest’ora? Slavo, senza voltarsi, uscì col borsone. Mise in moto la macchina, uscì dal cortile e si avviò verso la Tangenziale. Guidava, lasciava che il rumore della strada coprisse la confusione dei pensieri: ormai tutto il resto si era ridotto a un dettaglio insignificante, lavori, progetti estivi, perfino quelle pagine ironiche su Facebook che tanto amava per rilassarsi. Nella mente si faceva largo una sola, lenta e dolorosa consapevolezza e solo attraverso il suo filtro la vita prendeva significato. Tutto il resto bruciava e si allontanava; a restare vivo e intatto era solo ciò che contava davvero — i figli, la moglie… e la mamma. Si incolpava per la sua morte — non aveva fatto abbastanza, sempre troppo impegnato, troppe cose, troppe distrazioni. E la madre che non voleva gravare su di lui, non voleva essere un peso, e lui aveva rimandato, chiamato di meno, ascoltato ancora meno; accorciando conversazioni già troppo corte. Dopo un terzo del viaggio si fermò a una trattoria; mangiò qualcosa e poi guidò per altre tre ore senza sosta. Notò il tramonto solo quando il cielo, all’improvviso, si lacerò in lunghe crepe rosse, come se il sole non volesse mollare la presa sull’orizzonte. Arrivò al paese ormai buio; si perse tra le stradine non asfaltate fino in fondo, poi spense il motore davanti alla casa materna. La casa dov’era cresciuto. Nella notte non si distingueva quasi nulla. Slavo armeggiò con il cancello illuminandosi col cellulare — cinque chiamate perse della moglie. No, quella sera non avrebbe chiamato nessuno. Meglio lasciar spento il telefono ancora. L’odore intenso dei fiori di ciliegio, l’attrazione delle falene notturne, i loro petali bianchissimi nel buio. La casa rifletteva il cielo offuscato sui vetri. Slavo trovò la chiave, aprì la porta e nel vestibolo accese la vecchia lampadina. Vicino all’ingresso, le ciabatte per il cortile della mamma. Accanto all’altra porta, che portava alle camere, le sue pantofole blu, consumate, con due conigli rossi ricamati. Gliel’aveva regalate otto anni prima. Si fermò a guardarle, poi scosse la testa e infilò la chiave nell’altra porta. Ciao, mamma… stavi aspettando me? No. In quella casa ormai nessuno aspettava più il suo ritorno. Odorava di vecchi mobili e di un po’ di muffa, come se tirasse dal seminterrato. La casa si inumidiva in fretta e bisognava tenerla sempre accesa; altrimenti veniva la muffa. Sul comò: la spazzola, pochi trucchi. Vicino, una busta di plastica trasparente con una scorta di pasta “prezzo rosso”. Nel salotto solo il divano e la TV nuova mostravano il tocco di Slavo per la madre. La porta del frigo lasciata socchiusa in cucina trasmetteva un senso di abbandono. La stanza della mamma — il suo letto ricoperto da una coperta bianca a piramide di cuscini. Slavo si sedette sul bordo. Quella un tempo era la sua camera, i genitori dormivano nella più grande. Allora c’erano due letti accostati al muro, uno per il fratellino. E anche una scrivania davanti alla finestra. Ora tutto sostituito con una macchina da cucire — la mamma amava cucire e ricamare. Al posto dell’altro letto: il guardaroba dove sistemava le cose più care. Slavo rimase seduto, fissando il mobile come davanti al fantasma di sua madre. Lo sguardo fisso. Si chiuse la testa tra le mani e si piegò in due, fra le ginocchia. Scosso dai singhiozzi, rovinò sulla coperta candida… e scoppiò a piangere. Pianse perché non aveva saputo risponderle l’ultima volta che lei gli aveva stretto la mano. Era rimasto a fissarla come una statua, la vide spegnersi, e le migliaia di parole mai dette gli restavano strette in gola. La madre aveva sussurrato: «Non guardarmi così, Slavo… Sono stata felice con voi». E lui voleva, voleva ringraziarla per l’infanzia serena, per i sacrifici, l’amore, il calore di casa, per aver creato un rifugio solido… Anche solo per dirle grazie per la base sicura dalla quale ora partiva, il luogo dove tornare, il posto dove sei sempre accolto anche se sbagli. Ma era rimasto lì di pietra a guardarla, senza trovare le parole. A volte, dentro tutte le ricchezze della lingua, è difficile sceglierne una che non sembri ridicola o fuori tempo. Quelle che venivano in mente suonavano fuori moda, enfatiche da far vergognare. Era come se appartenessero a un’altra epoca, troppo antiquate per i nostri tempi. Tempi che non hanno saputo inventare parole nuove per sentimenti antichi, ma sono maestri in cinismo e pose. Spense tutte le luci, si gettò vestito sul letto senza sgualcire le coperte, trovò una coperta di lana sulla sedia e si addormentò subito. Non pensava che avrebbe dormito così bene. Alle sette del mattino si svegliò come sempre. Che strano meccanismo il corpo: qualsiasi ora si vada a letto, alle sette ci si sveglia come per magia, come quando bisogna prepararsi per andare al lavoro. Uscì a prendere la borsa in auto. Mentre raccoglieva il piumone, notò le betulle di fronte a casa, allineate dietro la staccionata, luminose nello splendore di maggio, come damigelle di primavera. La luce sui rami si rafforzava, pronta a riscaldare ogni zolla. Slavo si soffermò sul portico. Il canto degli uccelli, l’aria pulita… Che benessere! E che fortuna, pensava, essere cresciuto qui e non in città tra il cemento. Si stiracchiò, scaricò la borsa e la trascinò fino all’armadio della madre. Uno a uno prese gli abiti dalla borsa, li sistemò piegati o li appese alle grucce — come sua madre aveva insegnato. Le scarpe, sistemate in basso. Quando finì, indietreggiò per riguardare il risultato. Gli sembrò di vederla, sua madre, indossare quegli stessi abiti, sempre col sorriso dolce che lo diceva senza parlare — ti voglio bene. Slavo passò la mano tra le camicette, i vestiti, li abbracciò e respirò il loro profumo… Rimase lì, incapace di decidersi su cosa fare dopo. Poi si riscattò, tornò al presente e prese il telefono. — Pronto, dottor Arturo. Oggi non vengo in ufficio. Questione urgente, di famiglia. Ce la fate senza di me? Grazie. Alla moglie scrisse: “Scusa se ho perso la calma ieri. Torno stasera. Un bacio”. Nel vialetto fiorivano narcisi, i tulipani aprivano appena i boccioli. Slavo li raccolse tutti, assieme a un mazzetto di mughetti vicino al ribes. Ricavò tre piccoli mazzi: al cimitero l’aspettavano in tre. Passando davanti al negozio, si ricordò di non aver ancora mangiato. Entrò, comprò latte, una ciabatta e cioccolato. — Oh, Slavo! Di nuovo qui? — si stupì la signora Ivana, la negoziante. — Sì… Sono venuto per la mamma, — mormorò Slavo, abbassando gli occhi. — Capisco. Vuoi un po’ di ricotta fresca? Te la teneva sempre tua mamma, appena arrivava gliela mettevo via. Slavo la fissò. Si stava prendendo gioco di lui? No, la conosceva: era genuina. — No, grazie… Anzi, va bene, me la dia pure. E lei come sta, zia Ivana? Tutto bene? — Meglio non chiedere… — fece un gesto stanco. Lei e Valentina Ivanovna erano buone amiche, — Mio figlio Sergio è sempre più perso, beve troppo. Slavo fece colazione nel cimitero, davanti alle fotografie sui marmi. Tre piccoli mazzi di fiori accanto: narcisi, mughetti e tulipani. Fratello, padre, madre. Il fratellino era morto giovane cadendo dal tetto; il padre era mancato cinque anni prima. E ora anche la mamma. Slavo lasciò un pezzo di cioccolata a ognuno e un tocco di ricotta sulla tomba della madre. Nei suoi pensieri chiacchierava con loro. Rivide le birichinate con il fratello. Ricordava con precisione mattinate di pesca all’alba con il padre; l’abilità paterna nel lanciare la canna. E la mamma! Quando strillava in tutta la campagna: «Slaaaavo, a taaaavola!». La voce inconfondibile, si sentiva a chilometri di distanza. Che vergogna provava davanti agli amici… E ora? Pagherebbe per sentirla chiamare così ancora una volta. Si fermò a sfiorare la croce provvisoria sulla tomba della madre. La terra era ancora fresca. «Mamma, perdonami… Non sono riuscito a starti vicino. Viviamo staccati, eppure senza di te la vita è vuota. Avrei tanto da dirti, anche a te, papà. Siete stati i genitori migliori del mondo… come avete fatto? Noi con Olga non ci riusciamo, siamo egoisti, solo io, io, mio, voglio… Grazie di tutto. Anche a te, fratellino, grazie». Era l’ora di andare. Percorrendo il sentiero, Slavo masticava gli steli giovani d’erba. Alla prima strada incrociò Sergio, il figlio della negoziante, già ubriaco fradicio, un relitto. — Oh, Slavo! Ancora qui? — biascicò Sergio. — Sì… A trovare i miei. E tu, sempre a bere? — Ma certo! Oggi è giorno speciale. — Ah sì? Che festa mai sarebbe? Sergio tirò fuori un calendario da tasca e mostrò la data appena staccata. — Giornata mondiale della tartaruga! Vedi? — e annuì soddisfatto. — Sì, certo… — Slavo ironizzò. — Senti, Sergio… Tieniti stretta tua madre. È una persona d’oro, non vivrà per sempre. Ricordatelo. Poi proseguì lasciando indietro l’ex amico ancora sbalordito. E quello riuscì appena a bofonchiare: — Va bene… Stammi bene, Slavo. — Sì, stammi… addio, — rispose Slavo senza voltarsi.