Non potete farmi nulla. Non ne sono responsabile, balbettò, indietreggiando, tremando di paura.

“Non mi farete niente! Non ho colpa!” balbettò Niccolò, indietreggiando. Tremava dalla paura.

A inizio giugno era arrivato il caldo estivo. Dopo mesi in città, tutti cercavano un po’ d’aria fresca: chi andava al mare, chi in campagna, chi in montagna. Anche Sergio, sua moglie e la figlia partirono all’alba per un weekend nel paesino dove lui era cresciuto e dove ancora viveva sua madre.

“Pronti? Non avete dimenticato niente? Allora andiamo, prima che il sole ci cuocia!” disse Sergio, sistemandosi al volante. Sofia si sedette accanto a lui, mentre Elisabetta si accomodò dietro, lontana dall’aria condizionata.

In famiglia avevano deciso che Sofia avrebbe trascorso le ultime vacanze estive dalla nonna. La ragazza non aveva voglia di partire, ma con gli amici che se n’erano già andati, la città era diventata noiosa.

“Perché sei così triste? Vedrai, ti piacerà. Ci sono tanti amici laggiù, forse non vorrai più tornare!” la incoraggiò Sergio.

“Ma sì, papà, tranquillo,” borbottò Sofia, allacciandosi la cintura.

“Ecco, così mi piace!” rise Sergio. “L’ultima estate spensierata. Poi l’anno prossimo, esami, università… e poi la vita adulta.”

La città si risvegliava, scrollandosi di dosso la sonnolenza mattutina. Le strade erano ancora libere, e in poco tempo lasciarono il traffico alle spalle.

Il sole sorgeva, i suoi raggi filtravano tra le foglie degli alberi lungo la strada, accecanti come aghi. “Tutto bello… ma perché ho questo peso sul cuore?” pensò Sergio, fisso sull’asfalto che scorreva veloce sotto le ruote.

Dopo quattro ore, arrivarono nel paesino immerso nel verde e nei fiori. La nonna aprì la porta, esclamò di gioia e li baciò uno a uno.

“Come è cresciuta Sofia! Ormai è una signorina. Sergio, ho preparato le tue focacce preferite. Su, entrate, non restate nell’ingresso!” disse, agitandosi felice.

“Tutto è come prima,” sospirò Sergio, guardandosi intorno e respirando l’odore della casa d’infanzia. “Niente è cambiato. Hai ancora ogni cosa al suo posto. E tu sei sempre la stessa.” Abbracciò sua madre.

“Ma smettila, già!” rise lei, scacciando le sue parole. “Avrete fame, vero? Laviamoci le mani e facciamo colazione.”

“Stai attenta a questa qui, eh. Non darle troppa libertà. Niente uscite notturne,” disse Sergio, addentando metà focaccia in un solo morso.

“Tu invece ti ricordi come eri alla sua età?” ribatté la nonna, porgendogli una tazza di succo fresco.

“Ecco! Allora, nonna, raccontaci com’era da giovane, visto che sembra nato santo!” rise Sofia.

La nonna continuava a servire, ma a un tratto guardò fuori dalla finestra.

“Qualcuno vuole un tè caldo?” chiese, osservando i suoi ospiti. “Ci sono già i tuoi amici in cortile che aspettano. Hanno visto la macchina.” Sorrise furba a Sofia.

“Chi?” chiese lei, correndo alla finestra.

“Prima mangia,” insisté Sergio. “Possono aspettare.”

“Ho già finito. Grazie, nonna, erano buonissime.” Sofia scalpitava.

“Va’, va’, peste!” rise la nonna. “Torna per pranzo!”

E Sofia sparì in un attimo.

“Mamma, tienila d’occhio. Sembra grande, ma ha ancora la testa tra le nuvole,” disse Sergio quando la porta si chiuse.

“Qui è tranquillo, non preoccuparti.”

La sera dopo, Sergio ed Elisabetta ripartirono per la città. Fermo accanto alla macchina, diede gli ultimi consigli alla figlia.

“Aiuta la nonna. E non spegnere il telefono, capito?”

“Papà, basta, ho capito!” Sofia alzò gli occhi al cielo. “Se sei così in ansia, perché non mi riporti con voi?”

“Dai, Sergio, la stai soffocando,” intervenne Elisabetta. “Andiamo, o arriviamo a notte fonda.”

Uscendo dal cortile, Sergio guardò nello specchietto la madre e la figlia. Sbirciò sua moglie. “È tranquilla. Perché mi faccio tutte queste paranoie? Sofia è intelligente, non le succederà niente. Devo imparare a lasciarla andare…” cercò di calmare quella strana inquietudine nel petto.

Passarono tre settimane. Sofia chiamava ogni giorno, raccontando della vita in campagna. E Sergio si tranquillizzò. Ma un sabato mattina, lo svegliò il telefono.

“Ti chiamano dal lavoro?” bofonchiò Elisabetta, ancora assonnata.

Sergio prese il cellulare dal comodino. Vide che era sua madre e rispose subito.

“Sì, mamma. Perché chiami così presto?” Ma il cuore già batteva forte, presagendo guai.

“Sergio, perdonami… Non ho saputo proteggere Sofia,” singhiozzò la donna.

“Cosa le è successo?” Sergio balzò dal letto, afferrando i jeans.

“Disgrazia, vieni subito. Sofia è in ospedale, in coma…” la voce si spezzò in un pianto disperato.

“Preparati, Sofia è in ospedale,” disse a Elisabetta, gettando il telefono sul letto e infilando i pantaloni.

Elisabetta capì che era successo qualcosa di grave e si strappò di dosso la camicia da notte. Sussultò, cadendo seduta sul letto.

“Cosa ha Sofia?” sussurrò.

“Mamma piange, non ho capito bene. Andiamo e vediamo.”

La sera prima non aveva fatto benzina, e ora le pompe erano affollate. Era sabato, tutti in fuga dalla città afosa.

“Che facciamo? Perderemo un sacco di tempo,” disse Elisabetta, impotente.

“Un attimo.” Sergio scese, prese una tanica dal bagagliaio e andò al distributore.

Cinque minuti dopo tornò, riempì il serbatoio e ripartirono.

“Non voleva venire… Siamo stati noi a insistere… Se fosse rimasta, non sarebbe successo niente…” singhiozzava Elisabetta.

“Basta!” sbottò Sergio. “Non ce la faccio. Forse non è grave. Mamma avrà esagerato.” Ma non ci credeva nemmeno lui.

Arrivando al paesino, chiamò sua madre. Lei li aspettava in ospedale. Quando vide il figlio correre nel corridoio, gli si gettò addosso, piangendo.

“Non riusciamo a capire niente. Liz, resta con mamma. Vado a cercare il dottore.”

Lo trovò nella sala medici, dove fluttuava l’aroma del caffè appena fatto.

“Lei è il padre? Bene che sia arrivato. L’amico di sua figlia ha una gamba rotta e qualche costola incrinata. Ma lei ha un trauma cranico grave. Abbiamo operato per ridurre l’ematoma. Però non si è ancora risvegliata dall’anestesia. Speriamo che il suo giovane organismo reagisca. Vuole un caffè?”

“Si… riprenderà?” chiese Sergio, a fatica.

“Abbiamo fatto il possibile. C’è speranza, ma…” il dottore allargò le mani.

“Dov’è il ragazzo? Quello con cui era in moto?” lo interruppe Sergio.

“Al reparto di traumatologia, primo piano…”

Sergio si precipitò fuori.

“Si chiama Enrico Martini!” gli gridò dietro il medico.

Entrato nella stanza, Sergio vide subito un ragazzino conSergio guardò a lungo la figlia che sorrideva debolmente dal letto d’ospedale, e finalmente capì che il vero coraggio non stava nel trattenere, ma nel saper lasciare andare con amore.

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