Il teatro comunale di una piccola cittadina in Toscana era antico ma accogliente. I bambini si accalcavano nella sala, gli occhi fissi sul palco. Lì, sotto la luce fioca dei proiettori vintage, si esibiva di nuovo Enzo Moretti — un anziano prestigiatore che tutti in zona conoscevano. Il suo cappello, logoro ma ancora carico di sorprese, era diventato ormai una leggenda.
Non era un artista da circo nel senso tradizionale. Enzo aveva un cuore gentile e l’anima di un bambino. In ogni sua performance c’era una magia che non era solo trucco, ma speranza. Quella sera, l’ultimo numero: dal cappello avrebbe estratto una gallina viva di nome Piumetta. La sala trattenne il respiro.
“E ora… attenzione!” esclamò con teatralità, estraendo un pennuto arruffato.
L’entusiasmo dei bambini riempì la sala come un vento primaverile: applausi, risatine, grida. Ma quando Enzo stava per inchinarsi, sentì uno sguardo fisso su di lui. Uno solo — non divertito, non incantato. Lo sguardo di un bambino di sette anni, seduto nell’ultima fila, che osservava la gallina senza battere ciglio.
“Ciao, piccolino. Sei qui da solo?” chiese il mago, avvicinandosi.
“La gallina è vera?” sussurrò il bambino, estasiato.
“Ma certo! Vuoi accarezzarla? Si chiama Piumetta.”
Il ragazzino si avvicinò con cautela, sfiorando le piume con la mano. Gli occhi luccicavano, le labbra tremavano.
“E non ha paura dentro al cappello?”
“Piumetta è coraggiosa. Come te.”
“Edoardo!” gridò una voce.
Una donna dal viso stanco si avvicinò di fretta.
“Edo, ma che combini sempre?!” esclamò, rivolta al mago: “Scusate. È un po’ particolare. Non sta mai fermo.”
“Lei è sua madre?” chiese Enzo.
“Sono la sua educatrice. È dell’orfanotrofio, ha perso i genitori tempo fa…”
Quando Edoardo se ne andò a testa bassa, Enzo sentì un pugno al cuore: no, non poteva semplicemente dimenticarlo.
“Mi dica l’indirizzo dell’orfanotrofio.”
La donna sbatté le palpebre, ma glielo disse.
Enzo non chiuse occhio tutta la notte. Ricordava come, anni prima, dopo il divorzio, aveva perso ogni contatto con suo figlio. E ora, negli occhi di quel bambino, sentiva che il destino gli stava dando un’altra possibilità.
La mattina dopo si presentò all’orfanotrofio con un sacco di caramelle. Edoardo era seduto in un angolo, lontano dagli altri. Vedendo Enzo, si illuminò. E quando scoprì che aveva portato anche Piumetta, saltellò di gioia.
Cominciò così la loro amicizia. Prima visite sporadiche, poi gite allo zoo, libri e cartoni animati. Edoardo si affezionò a lui con tutto il cuore. E Enzo — lo stesso.
Un giorno, decise di rivolgersi all’educatrice, Maria Grazia:
“Vorrei adottare Edoardo.”
“A un uomo solo non lo permetteranno,” rispose con dolcezza. “Le leggi sono così.”
Enzo abbassò lo sguardo. Non sapeva che Maria lo osservava da tempo. E che ogni volta che arrivava, il suo cuore batteva all’impazzata. Anche lei si era affezionata a quell’uomo strano, un po’ buffo, ma di una dolcezza infantile.
Una settimana dopo, Edoardo, seduto su una panchina con la zampa di Piumetta tra le mani, chiese piano:
“Possiamo stare insieme per sempre?”
Enzo si irrigidì. Non sapeva come spiegargli i documenti, l’impossibilità.
Ma il bambino, fiducioso, gli fissò gli occhi e aggiunse:
“Se Maria Grazia venisse con noi? È buona. Potrebbe essere tua moglie, e mia madre. Così saremmo una famiglia.”
Enzo alzò lo sguardo. Maria era lì, vicino alla finestra. E capì — il bambino aveva ragione.
Le corse incontro, il cuore in tumulto, la mente piena di pensieri. Ma non dovette parlare. Lei aveva già letto tutto nel suo sguardo. Lo sapeva già.
Edoardo li raggiunse e li abbracciò entrambi.
E in quel momento, tra vecchie pareti, tra odori di gesso, pittura e detersivo economico, nel corridoio di un normale orfanotrofio nacque una famiglia.
La stessa che si sogna nelle favole.