Non correvamo frettolosamente verso lamore, perché lamavamo già da sempre.
Nella piccola biblioteca comunale di Firenze regnava sempre un silenzio quasi sacrale, anche quando vi entravano i lettori. Ginevra Bianchi non si imponeva mai con parole; bastava varcare la porta, dove gli alti scaffali di legno sembravano torri di conoscenza, e i visitatori si fermavano a guardare, poi si avvicinavano con rispetto a lei.
Buongiorno, salutavano sempre con cortesia, chiedendo poi il volume desiderato.
Buongiorno, rispondeva lei con un sorriso, ascoltando attentamente la richiesta di ogni lettore.
Ginevra era di natura gentile e cortese; la biblioteca era per lei più di un lavoro, era la sua vocazione. A volte rifletteva:
Che fortuna la vita mi abbia indirizzata verso questa strada, non riesco a immaginare un altro mestiere che mi dia tanta serenità. È bello quando il lavoro è una gioia. Di solito i visitatori sono educati.
Talvolta, però, arrivava qualche lettore impaziente, che sbirciava il tavolo cercando un libro con urgenza. Ginevra, paziente, non poteva mai alzare la voce.
Amava leggere fin da bambina, così la sua scelta professionale non fu mai un dubbio: i libri erano la sua terra. Si sentiva sicura tra quelle pagine, era una lettrice accanita, aveva già divorato innumerevoli volumi.
Mentre le amiche correvano agli appuntamenti, si affannavano tra lavoro e casa, partorivano, si trasferivano, litigavano e si riconciliavano, Ginevra viveva tranquilla, con passo misurato.
Dal suo aspetto si poteva intuire la sua compostezza: voce bassa, un gesto di aggiustare gli occhiali quando qualcosa non quadrava, sguardo caldo di occhi grigi, capelli chiari sempre raccolti in una crocchia dietro la testa, abbigliamento ordinato e rigoroso.
Aveva ventisette anni quando, due giorni dopo il suo compleanno, entrò nella biblioteca un giovane dal sorriso timido, con occhiali dal montatura sottile. Guardandolo, pensò:
Che uomo piacevole. Devessere sui trentanni, non più di tanto.
Rifletté sul fatto che non aveva mai osservato con attenzione gli uomini che varcavano la soglia della biblioteca, e improvvisamente la sua curiosità si accese.
Buon pomeriggio, salutò cortesemente il nuovo lettore.
Buon pomeriggio, rispose Ginevra con la stessa gentilezza.
Avrei bisogno di un libro, esitò un attimo, forse ricordando lautore o il titolo, poi con decisione proseguì: Sperate di trovarlo, mi sembra di vedere lintera biblioteca davanti a me, aggiustò gli occhiali.
Ci vorrà qualche minuto, è disponibile, ma è posizionato al ripiano superiore, rispose Ginevra, dirigendosi verso gli scaffali. Il visitatore osservava la sala di lettura.
Quel giovane era Silvano Moretti, un ingegnere timido che lavorava nel reparto di architettura, tra disegni antichi e progetti nuovi. Quando Ginevra tornò con il volume tra le mani, Silvano le rivolse un sorriso caloroso.
Ginevra si sedette al tavolo e iniziò a compilare il registro, riconoscendo il nome Silvano. Lui firmò, ma rimase indeciso, quasi a fissare il libro.
Grazie, ricordò allimprovviso di non aver ringraziato.
Prego, rispose lei.
Quel momento rimase sospeso nella stanza: i due si guardavano senza parole, lui non riusciva a andarsene, lei non trovava cosa dire. Il tempo sembrava fermarsi. Alla fine fu Ginevra a spezzare il silenzio.
Silvano, le serve qualcosaltro?
Sì oppure no balbettò, poi, con un filo di coraggio, continuò:
Sa il mio nome, ma il suo?
Ginevra, rispose timidamente lei.
Ah, Ginevra che nome bello, proprio italiano, mi è sembrato fin da subito rimase in silenzio, e lei colse la sua timidezza, perché lo capiva, essendo simile a lei.
Grazie, ripeté Silvano, restituirò il libro intatto. Arrivederci.
Arrivederci, rispose lei con cortesia.
Ginevra era certa che lui avrebbe avuto cura del volume; vestiva pantaloni stirati, camicia impeccabile, cravatta, abito che gli calzava a pennello, scarpe lucide come specchi.
Silvano se ne andò, ma Ginevra rimase a rimuginare su di lui.
Sembra che le nostre anime si capiscano, pensò, lo sento davvero
Poi, riprendendosi, rise di sé.
Ma io? Non ho mai dato così tanto peso a un lettore
Silvano uscì dalla biblioteca alterato, come se avesse appena incontrato unombra del suo stesso cuore.
Che bella Ginevra, è proprio il posto giusto per lei, in biblioteca, pensava, ma io ho perso le parole di lode Perché sono così timido? La sua modestia mi ostacola. Forse non potrò più lavorare serenamente, perché il suo volto non mi lascia più.
Il pomeriggio successivo, stanco, Silvano faticava a concentrarsi sul disegno; la sua mente era invischiata al ricordo di Ginevra.
Che illusione è questa, si chiedeva, cercando di distogliere lo sguardo dalle tavole tecniche.
Il giorno dopo, durante la pausa pranzo, tornò in biblioteca, giustificando la visita con la scusa di prendere un altro libro.
Buongiorno, Ginevra, lei alzò gli occhi su di lui, e lui rimase colpito dallo sguardo che gli fu rivolto.
Buongiorno, sorrise lei come a un vecchio amico, ha bisogno di un altro volume?
Silenzioso, arrossito, Silvano pronunciò finalmente:
In realtà sono qui per confessarle Mi è molto piaciuta scusi se sono diretto.
Il volto di Ginevra si illuminò, le guance si tingerono di rosa.
Perché chiedere scusa? Anche a me è piaciuto ieri, devo ammettere, ho dormito poco da quella notte.
Lui, sollevato, rispose:
Anchio. È stato come aprire gli occhi.
Ci fu un attimo di imbarazzo, poi Silvano trovò il coraggio:
Ginevra, posso accompagnarla a casa quando finisce il lavoro?
Posso, rispose modestamente, accennando a un sorriso.
Da quel giorno i loro incontri divennero passeggiate nel parco, dove Silvano, entusiasta, narrava del suo lavoro, mentre lei parlava dei libri.
Silvano, sai, i libri sono come le persone, ognuno ha la sua anima, diceva lei, e lui non rimaneva stupito del paragone, capiva quanto fosse importante per lei la sua vita tra i volumi.
Arrivò lautunno freddo; i due trascorrevano ore a bere tè nella cucina di Ginevra, a volte in silenzio, guardandosi, concordando senza parole:
È bello stare insieme anche senza parlare
Condividevano sogni e gioie. Ginevra desiderava ardentemente visitare Venezia, ne aveva letto molto, lo descriveva a Silvano, che immaginava già la gondola che scivolava su un canale stretto, circondato dallacqua.
Un dì Silvano, di sabato, portò un mazzo di rose rosse.
Questo è per te, Ginevrina, sposiamoci, ho già pensato a questo da tempo Sei daccordo?
Daccordo, rispose lei, senza esitazioni, felice.
Celebrarono un matrimonio semplice, non per timore del clamore, ma perché non avevano fretta. La loro vita scorreva lenta, senza correre. Erano felici di aver trovato lun laltro, ma, nonostante gli anni trascorsi insieme, non riuscirono a partorire.
Non si disperarono né incolparono il destino. Presero un gatto nero di nome Barone da un rifugio, comprarono una casa di campagna in Toscana. Così si svolgeva la loro esistenza: lavoro, casa di campagna, libri alla sera, chiacchiere sincere con una tazza di caffè, il ronronare di Barone. In campagna Silvano costruiva casette per gli uccellini, Ginevra lavorava a maglia calze, curava i fiori. I vicini, rari, commentavano alle spalle la loro vita tranquilla.
Vivono noiosi, tutti i giorni uguali, mormoravano, ma loro non si annoiavano. Ogni mattina Silvano preparava il caffè nella vecchia moka, versandolo in tazzine di porcellana, mentre Ginevra lanciava briciole ai passeri sulla finestra. Destate passavano più tempo in campagna, piantando fiori; dinverno, al ritorno, ascoltavano il crepitio del fuoco nel camino. Parlavano poco, perché le parole non servivano quando tutto era già compreso.
Vissero molti anni, divennero anziani. Non si affrettarono ad amare, perché lamore li accompagnava da sempre. Con letà arrivò la pensione; trascorrevano sempre più tempo nella casa di campagna, amavano il silenzio, il canto degli uccelli, le funghi destate, la foresta vicina. I vicini li rispettavano per la loro serenità.
Un giorno Silvano tornò dal mercato con una bella bottiglia di vino rosso e frutta. Ginevra, sorpresa, lo guardò: non bevevano alcolici da tempo. Tirò fuori due bicchieri dal credenza, li pulì con un canovaccio che usava sempre per asciugare i piatti quando lei li lavava, e li mise davanti a lei.
Alzando il bicchiere, Ginevra sorrise:
A noi?
No, rispose Silvano, estraendo due biglietti aerei dalla tasca, a Venezia.
Ginevra rimase immobile. Sognavano quella città da tutta la vita, ma avevano sempre rimandato: il lavoro, la casa di campagna, la malattia di Barone.
Ma siamo ormai vecchi, osservò lei.
Non vecchi, ma anziani, ecco perché andiamo
Silvano e Ginevra partirono. Riseravano nei stretti canali, scivolando in gondola sotto i ponti, ridevano come adolescenti. Passeggiavano: lei con il cappello di paglia, lui con la macchina fotografica al collo. Una sera, al tramonto, sul lago, Silvano le disse di nuovo:
Sono felice, Ginevra, ti amo più di ogni cosa
E io ringrazio il giorno in cui mi hai chiesto di sposarmi, sapevo quanto fosse difficile per te Grazie per aver realizzato il mio sogno. Non desidero altro dalla vita, solo che restiamo insieme.
Sorrisero, felici, perché era il loro desiderio più profondo. Così continuarono a vivere, senza fretta, con il cuore leggero, ricordando che lamore, quando nasce lentamente, dura per sempre.





