Non sopporterò più

Diario personale
Ore 1:15
*Che palle, ancora ‘sta musica schifosa!* – ho urlato verso il soffitto, battendo i pugni sul termosifone di ghisa. – Ma è l’una di notte! Pare un concerto rock!

– Mamma, calmati – sospirò mia figlia Simona, senza staccare gli occhi dal telefonino. – Ci parli domani.

– Ma quanto ancora? Sopporto questi… questi… – agitai le mani, cercando le parole – spaccini, chissà!

– Non urlare così. Sveglierai Michelina.

– Meglio! Che sappia in che palazzo vive! – Mi affacciai alla finestra spalancandola. – Ehi, là sopra! Smettetela di urlare!

Dal terzo piano spuntò una testa scapigliata di ragazzo.

– Nonna, sei tu che urli! La gente dorme!

– Chi ti credi di chiamare “nonna”, idiota? – ribollii. – Chiamo i carabinieri ora stesso!

– Chiamali pure! – sbottò lui, chiudendo la finestra di colpo.
La musica aumentò di volume.

Mi lasciai cadere sul divano, una mano sul petto. Le mani tremavano, il fiato corto. Simona finalmente posò il cellulare.

– Stai male? Ti porto le gocce?

– Il cordispasmina… – ansimai.

Simona tornò con le gocce e un bicchiere. Le ingoiai, sprofondando nei cuscini.

– Non ce la faccio più, tesoro. Qui c’erano persone per bene. Pace e rispetto. Adesso… – feci un gesto vago verso il soffitto, dove rimbombavano i tamburi.

– Quand’è che son traslocati?

– Un mese fa. Coppia giovane. Sembravano educati: salutavano, sorridevano. Invece…

Un fracasso improvviso ci interruppe, seguito da risate stridule.

– Drogati, sicuro – borbottai. – La gente normale a quest’ora dorme.

Simona si stiracchiò.

– Vado a casa, mamma. È tardi.

– Non lasciarmi sola con questi… pazzi scatenati!

– Cosa vuoi che faccia? Domani lavoro, Michelina ha scuola. Pensaci tu ai vicini.

Rimasi sola nell’appartamento. Ogni tonfo dal piano di sopra mi trafiggeva il cuore.

Dalla scrivania presi l’agenda. Cercai il numero della stazione dei carabinieri. Nessuno rispose. Provai il centralino.

– Pronto? – una voce stanca.

– Buongiorno. Sono Giovanna Carbone da Via Garibaldi. I vicini hanno la musica a tutto volume, nessuno dorme.

– Che ore sono?

– L’una e un quarto!

– Segnalo la lamentela. Una pattuglia passerà appena libera.

– Quando?

– Non so. Abbiamo molte chiamate.

Riattaccai, stringendo i pugni. “Appena libera”. Domani mattina? Fra una settimana?

Alla finestra la via era deserta, illuminata dai lampioni. Ma nel mio palazzo era l’inferno: musica assordante, urla. E a nessuno importava.

Ricordo trent’anni in questa casa. Vicini che cambiavano, bambini cresciuti. Ci conoscevamo tutti, rispetto reciproco. Dopo le dieci, silenzio perfetto.

Ora? Gioventù maleducata, convinta d’avere ogni diritto. Genitori ricchi, case comprate, educazione zero.

Una nuova canzone esplose sopra, distorcendo chitarre elettriche. Le pareti vibrarono per i bassi.

Non ressi più. Riapri la finestra.

– SPEGNETE QUELLA MUSICA! – urlai con tutta la voce.

Silenzio come risposta.

Indossai la vestaglia e uscii sul pianerottolo. Salii le scale e suonai. Passi pesanti, poi una voca maschile:

– Chi è?

– La vicina del piano di sotto. Aprite, per favore.

La porta si schiuse sulla catenella. Un occhio mi fissò.

– Che vuoi?

– Ragazzo, potreste abbassare? È l’una!

– Disturbiamo?

– Certo! Con questo baccano?

Lui grugnì e stava per sbattere la porta. Infilai il piede nello spiraglio.

– Aspetta! Sto parlando con voi!

– Nonna, non rompere. Qui siamo a casa nostra.

– A casa vostra distruggete pure i muri, ma la serenità altrui si rispetta!

Chiusero. Scesi lentamente.

La musica era ancora più forte ora, accompagnata da nuove voci.

Mi misi a letto con il cuscino sulla testa. Inutile. I bassi penetravano le ossa.

Andai in cucina. Una tazza di tè alla finestra. Fuori tranquillità,illuminata dai lampioni. Dentro, un manicomio.

Ero stanca. Stanca della maleducazione, dell’ dell’indifferenza, del dover mendicare un rispetto dovuto.

Un tempo ero diversa. Dirigente alla biblioteca civica, figlia cresciuta, nipotina curata. Rispettata, ascoltata.

E ora? Una vecchia pensionata da insultare, costretta a sopportare prepotenze.

Finii il tè. Basta. Non avrei sopportato ancora.

Dall’armadio presi il martello da fabbro di mio marito. Pesante, solido.

Mi avvicinai al termosifone e sferrai un colpo secco contro il tubo. Un clangore metallico rimbombò per la tromba delle scale. Batti ancora. E ancora.

Di sopra la musica cessò. Urla confuse, scalpiccio.

– Che succede??

– Quella vecchia matta del piano terra! – riconobbi la voce.

Colpii di nuovo. Il metallo urlò nel silenzio.

– Vi faccio vedere io la matta! – gridai a squarciagola. – Sveglio tutto il palazzo ora!

Colpo dopo colpo. Metodico.

Sopra, panico. Sedie spostate, imprecazioni.

– SPEGNETE! – urlai fra un colpo e l’altro. – O continuo tutta la notte!

La musica tacque. Abbassai il martello. Silenzio. Finalmente.

Mi sedetti sul divano. Il cuore rallentò. Le mani ancora tremavano, ma l’animo era sollevato.

Bussarono alla porta. Allo spioncino: Marco, il ragazzo di sopra, con una ragazza
La mattina seguente Valeria versò il caffè fumante nella tazzina, sorseggiandolo piano mentre un ragionevole trambusto mattutino – il calpestio dei passi, un rubinetto che scorreva – si sentiva dai piani di sopra, la normale colonna sonora della vita che finalmente si era ristabilita.

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