Non ti dimenticherò mai

Non ti dimenticherò mai

Ludovica Santini camminava verso casa con il cappotto di lana slacciato, una borsa di cuoio consunta in mano piena di quaderni da correggere. Avrebbe passato la serata a segnare errori nei temi degli studenti.

Aveva appena iniziato a germogliare la primavera, e già le foglie tenere spuntavano dagli alberi. La natura si risvegliava sotto un sole caldo e generoso. Ancora poco, e tutto sarebbe esploso in fiori.

I passanti salutavano Ludovica con rispetto, e lei rispondeva con un sorriso discreto. A molti di loro aveva insegnato italiano e letteratura alle scuole medie, e ora i loro figli sedevano nei suoi banchi.

Era ancora snella come una ragazzina, bassa di statura, da dietro potevi scambiarla per una ventenne. E il viso non era male. Ma chi poteva sposare, in un posto così? Così viveva sola, in una casetta di legno in una stradina stretta. Gliel’avevano assegnata come alloggio di servizio venticinque anni prima, quando era arrivata da una grande città.

Anche il paesino era piccolo, più simile a un borgo che a un paese. Ai giovani insegnanti ora davano appartamenti in palazzi di mattoni a tre piani. Ma nessuno voleva più venire qui, tutti correvano a Milano o Roma.

Ludovica, però, si era affezionata alla sua casetta e non aveva il coraggio di lasciarla. Quando aveva tempo libero, amava lavorare nell’orto. Appena arrivata, non sapeva far nulla, ma la vita l’aveva insegnata a tutto: accendere la stufa, zappare la terra, fare conserve e marmellate.

La vita…
Anche allora era primavera. Due ragazzi sedevano sotto la finestra del dormitorio e discutevano su come si scrivesse una parola. Sbagliavano entrambi. A Ludovica venne a noia sentire quelle sciocchezze, si affacciò e corresse loro.

Uno dei due, senza scomporsi, le chiese di controllare tutto il foglietto. Lei scese, lo sistemò.

“Grazie. Che fortuna averti incontrata. Come ti chiami?”
“Ludovica.”
“Io sono Vittorio. Insegnerai, tu? Noi lavoriamo qui vicino.”
“Meglio dire ‘professoressa’, o ‘docente’,” lo corresse lei.

Vittorio le piacque. Sembrava un orso. Con lui si sentiva al sicuro. Quando le chiese di sposarlo, accettò senza esitare.

A sua madre, invece, Ludovica non andava a genio.
“Che ci fai con quella lì? Leggere libri? Di sicuro non sa nemmeno cucinare. Ah, ne vedrai delle belle,” borbottava la suocera quando lei non c’era.

Non aveva tutti i torti. Ludovica sapeva solo fare la pasta e le uova al tegamino, e anche quelle le riuscivano male. Metteva sul fuoco una pentola e si perdeva a leggere, finché non sentiva l’odore di bruciato.

La suocera capì che suo figlio sarebbe morto di fame, e la cucina diventò suo dominio. Ludovica imparò qualcosa, Vittorio si vestì meglio e smise di bestemmiare. Vivevano bene.

Un anno dopo nacque il loro figlio, tranquillo e serio come il padre. Era presto, ma quando avrebbe avuto tempo, con le classi da seguire? Così almeno era libera.

La suocera però non smetteva di criticarla, anche davanti a lei. Ludovica taceva, ma la notte si lamentava con Vittorio.
“L’importante è che ti amo io,” diceva lui, baciandola.

Ludovica voleva tornare a insegnare. Quando il piccolo Ettore crebbe un po’, decise di metterlo all’asilo.
“Macché! Lo rovinereste. Ci penso io,” sbottò la suocera, licenziandosi.

Ludovica fu grata. La sera correggeva i compiti fino a tardi, la suocera sospirava e brontolava.

Forse per l’influenza della madre, forse per noia, Vittorio iniziò a sparire di casa. Tornavano i vestiti sgualciti, le parolacce. A letto, non la toccava più.

Fu la suocera, con un ghigno, a dirle che Vittorio aveva un’amante: una commessa del negozio sotto casa, grossa, coi capelli rossi e gli occhi truccati pesantemente. Non cercava di cambiarlo, lo riempiva solo di cibi che negli anni Ottanta scarseggiavano.

Ludovica gli chiese direttamente se fosse vero.
“Scusami, ma siamo troppo diversi,” rispose, evitando il suo sguardo.

Andò all’Ufficio Scolastico e chiese un trasferimento in qualsiasi paese della provincia.

A metà anno, i posti erano pochi. Ma ne trovarono uno: una ragazza era scappata da un borgo sperduto tre mesi prima. C’era anche una casa. Ludovica accettò, prese Ettore e partì.

Il posto era più una frazione che un paese. La casa assegnatale era di legno, con una catasta di legna saccheggiata accanto a una stalla pericolante. Superata la disperazione, imparò ad accendere la stufa, zappare, lavarsi con l’acqua fredda del pozzo. Ettore, felice, correva in giro, inseguiva i gatti dei vicini e si nascondeva tra i cespugli di ribes.

Vittorio pagava gli alimenti, ma non venne mai a trovare il figlio. Sposò la commessa, ebbero due bambine.

Finita la scuola, Ettore partì per il capoluogo, s’iscrisse all’università. All’inizio stette col padre. Si lamentava: stretto, le sorelline insopportabili. La commessa litigava con la suocera, i vicini battevano sui muri. Vittorio trovò alla madre un piccolo appartamento, e da allora lei sparì.

All’inizio Ettore tornava per le vacanze. Ogni volta che varcava la soglia, Ludovica trasaliva: era identico al padre. La casa sembrava più buia. Ora lavorava come ingegnere capo in una fabbrica, sposato, in vacanza al mare o all’estero. Stava bene, e questo bastava.

Di fronte a casa sua, al posto di una baracca, stavano costruendo. C’era già il tetto. Ludovica si fermò a osservare un uomo che montava i telai delle finestre. Lavorava in canottiera, già abbronzato.

“Ti piace?” le chiese, notandola.
“Sì.”
“Tu abiti lì, vero? La veranda è da sistemare, e il tetto perde.”
“Quando piove forte, sì,” ammise.
“Vuoi che ci penso io?”
“Davvero? Quanto vorresti?”
“Ci accordiamo. Fra una settimana finiamo qui. Passerò a vedere.”

Ludovica si turbò. Non aveva più di quarant’anni, un bell’uomo. Cosa voleva da lei? Lei andava in pensione tra poco. Sì, sembrava giovane. Un cagnolino resta cucciolo per sempre. Ma comunque…

Salutò e corse a casa. Guardò la casa con occhi nuovi: la veranda storta, il cancello penzolante… Se non fosse stato per lui, non ci avrebbe fatto caso. Ci era abituata.

Sì, serviva una riparazione. Quanto le avrebbe chiesto? Aveva pochi soldi. Due giorni dopo, l’uomo passò, ispezionò tutto e annotò i materiali necessari.

“Tutto chiaro. Posso iniziare sabato. Per i materiali non preoccuparti, ne avanzano sempre.” Indicò la nuova casa bifamiliare dietro le finestre.
“Ho pochi soldi,” ammise timidamente.
“Non ti preoccupare. Mi dai da mangiare, e siamo pari.”

LCon il passare degli anni, ogni volta che Ludovica accarezzava il legno della veranda riparata, le sembrava di sentire ancora il calore delle mani di Michele, come un’eco lontana di quelle brevi stagioni d’amore rubate al tempo.

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