«Non vieni da me solo per l’appartamento?» — Storia di una nonna che ha deciso di mettere alla prova i suoi nipoti

Oggi voglio raccontare una storia che mi ha fatto riflettere molto. Mia nonna Valentina ha vissuto gran parte della sua vita in una tranquilla zona alla periferia di Firenze. Dopo la morte di mio nonno, è rimasta sola nel suo bilocale, ereditato anni fa da sua madre. I miei genitori erano sempre impegnati, spesso in viaggio per lavoro o fino a tardi in ufficio, così la mia sorellina, Beatrice, passava spesso i pomeriggi con la nonna.

Mio fratello maggiore, Matteo, è sempre stato il prediletto. A lui compravamo i giocattoli migliori, lo iscrivevano a mille corsi e poi l’hanno mandato all’università più prestigiosa. Beatrice, invece, era l’ombra di casa—mai una lamentela, mai una richiesta, cresciuta troppo in fretta. Studiava, lavorava, affittava una stanza e non chiedeva nulla a nessuno. L’unico vero affetto nella sua vita era la nonna Valeria.

Bea andava da lei quasi ogni settimana—dopo il lavoro, nei weekend, con qualsiasi tempo. Portava la spesa, le medicine, o semplicemente si fermava per un tè e due chiacchiere. Una sera, però, la nonna la accolse in silenzio, con lo sguardo freddo.

«Perché vieni così spesso, Bea?» le chiese, fissando la TV. «Forse vuoi l’appartamento?»

Beatrice, che stava lavando il pavimento, si bloccò.

«Nonna, ma cosa dici? Di che appartamento parli? Ti ho promesso le polpette al sugo—le vuoi con le patate?»

La nonna sbuffò ma non rispose. Bea sorrise, ingoiò il dispiacere e andò in cucina. Mise l’acqua sul fuoco, prese la crema al cioccolato che piaceva tanto alla nonna e iniziò a preparare la cena.

Pochi minuti dopo, la nonna entrò e le disse una cosa che le strinse il cuore:

«Sai, ho già firmato tutto per Matteo. Perdi tempo, non avrai niente.»

Bea si raddrizzò, si asciugò le mani e rispose calma:

«Brava. Io non vengo per l’appartamento. Sei la mia famiglia, mi hai cresciuta, ora è il mio turno di prendermi cura di te. Le quattro mura non contano.»

La nonna tacque, ma il suo sguardo era cambiato—c’era una strana preoccupazione. Bevvero il tè, parlarono della sua serie preferita, e quella sera non si parlò più di case.

Tre giorni dopo, Bea ricevette una chiamata da Matteo. Urlava al telefono, accusandola di aver «convinto» la nonna a intestarle l’appartamento.

«Sei come tutti gli altri!» gridò. «Non voglio più vederti!»

Poco dopo, chiamò nostra madre. Stessa storia: «Come hai potuto? Questa è la nostra casa!» Bea, confusa, riattaccò e corse dalla nonna.

«Nonna, cosa succede?» chiese tranquilla. «Matteo dice che hai firmato per me. Io non so niente. Ho un amico avvocato, se serve, ma dimmi la verità: hai firmato qualcosa?»

La nonna si sedette, sospirò e confessò. Le vicine l’avevano spaventata con storie di parenti che aiutavano i nonni solo per l’eredità. Così aveva deciso di metterli alla prova. A Bea aveva detto che l’appartamento era di Matteo. A Matteo, che era di Bea.

«Ora ho capito chi siete davvero» disse, con voce triste. «Tu, Bea, sei rimasta la stessa, dolce e sincera. Matteo… beh, hai sentito com’è reagito.»

Bea scosse la testa. Non era arrabbiata. Solo finalmente consapevole di dove fosse l’affetto e dove l’interesse.

La nonna le propose di trasferirsi da lei, visto che ora l’appartamento era suo. Ma Bea rifiutò.

«Tu hai bisogno di tranquillità, nonna. Io ho i miei ritmi—lavoro, amici, la mia vita. Lasciamo tutto com’è. Verrò a trovarti come sempre. L’appartamento non è importante.»

Da allora, nulla è cambiato. Bea continua a passare dalla nonna, a portarle i suoi cibi preferiti, a guardare le sue serie e a regalarle quel calore che solo lei sa dare. E la nonna sa di avere una nipote che la ama davvero. Non per i metri quadri. Ma per quello che è.

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