Oggi è un altro weekend che finisce e io sono esausto. Mia suocera, la “nonna affettuosa”, è venuta, ha giocato con mio figlio ed è andata via. Io invece ho dovuto cucinare, pulire e fare la conversazione. Sono al limite. Ogni fine settimana si trasforma in una maratona infinita, dove devo essere il perfetto padrone di casa, padre e intrattenitore. Tutto per colpa delle visite di mia suocera, che si definisce “la nonna che adora il nipote”. Arriva, gioca un po’ con lui, e tocca a me preparare da mangiare, sistemare la casa e sorridere come se non avessi altro da fare.
Il nostro bambino ha solo una nonna, la madre di mia moglie, Maria Grazia Rossi. È la classica nonna di un paesino vicino a Firenze. Un tempo attrice in un piccolo teatro locale, adora essere al centro dell’attenzione. Non fa che ripetere quanto ami nostro figlio, quanto gli manchi e quanto sia pronta ad aiutare. Ma il suo “aiuto” si riduce a visite che sembrano più uno spettacolo teatrale.
Maria Grazia è andata in pensione prima del tempo e ora si annoia. Vive da sola, le giornate le sembrano infinite, e la nostra casa è diventata il suo diversivo. Ma no, non viene per badare al nipote e darmi un po’ di respiro. Viene “in visita”. E come posso dire di no all’unica nonna, no? Dopotutto non fa niente di male. Ha il diritto di vedere suo nipote. Ogni volta gli porta un giocattolo, lo tiene in braccio, qualche volta fa anche un giretto con la carrozzina nel cortile per una mezz’oretta — e questo è tutto il suo “aiuto”. I vicini ne sono entusiasti: “Che nonna meravigliosa, sempre presente per il nipote!” Ma nessuno vede cosa succede dietro le porte chiuse.
Io non voglio queste “visite” e questo “aiuto”, anche se è gratuito. Mia suocera arriva ogni weekend, quando mia moglie, Valentina, è a casa. Le piace quando tutta la famiglia è riunita, così può brillare. A volte si fa accompagnare da mio suocero, Luigi, ma lui raramente accetta — ha la sua vita, i suoi hobby, e tra loro ormai dormono in stanze separate.
E ora immaginatevi: sono un giovane padre, mio figlio non ha neanche un anno. È capriccioso, gli stanno spuntando i dentini, ha mal di pancia, e io non dormo la notte. Ma devo “approfittare” dell’aiuto della nonna, perché sta già arrivando. E questo significa pulire, cucinare, apparecchiare e chiacchierare senza sosta. Ho provato a chiedere a Valentina di aiutarmi, ma mi risponde: “Ho lavorato tutta la settimana, lasciami riposare!” E così corro tra la cucina, il bambino e mia suocera, che se ne sta seduta nella sua poltrona preferita a far le vocine al nipotino.
Maria Grazia arriva, gioca con il bambino, si beve un caffè, e io mi affanno come un matto. Preparo il pranzo, sparecchio, pulisco dietro a mio figlio che ha rovesciato il succo o si è infarinato di pappa. Devo essere gentile, partecipare alla conversazione, sorridere mentre lei racconta storie del suo teatro. E poi, quando ne ha avuto abbastanza, se ne va e basta. A volte sono tre ore, altre volte mezz’ora. Se ne va con la sensazione di aver fatto il suo dovere, e io crollo sfinito davanti a una montagna di piatti e giochi sparsi per casa.
Posso capire le nonne che si prendono i nipoti per il weekend: quello sì che è un aiuto. Ma io? Io ho uno spettacolo dove devo fare il cuoco, il domestico e l’animatore. Ho provato a parlarne con mia moglie, ma lei alza le spalle: “Be’, è mia mamma, non possiamo certo chiuderle la porta in faccia.” Mi dicono di non cucinare, di non pulire, ma come faccio quando è già sulla soglia di casa? Mi sento un egoista, come se fossi ingrato e pigro. Ma davvero chiedo troppo? Vorrei solo respirare liberamente nella mia casa.
Questa storia è un grido di rabbia. Non so come trovare un equilibrio, come far capire che questo “aiuto” mi prosciuga. Forse pretendo troppo? Ma ogni volta che la vedo andare via lasciando il caos dietro di sé, sogno un weekend in cui posso essere semplicemente un padre, e non un servo. Grazie per avermi ascoltato.
La lezione? A volte l’aiuto non è davvero un aiuto, ma un peso travestito da affetto. E dire di no non è un crimine.