Mio figlio ha portato a casa una nuova moglie con due bambini. Ogni giorno, per me, è un inferno.
Sono tre anni che vivo come in un incubo senza fine, un sogno brutto da cui non riesco a svegliarmi. Tutto è cominciato il giorno in cui mio figlio Luca, un uomo di trentacinque anni, ha presentato la sua nuova moglie nella nostra casa di due stanze a Roma. Una donna di nome Bianca, con già due figli da un matrimonio precedente. All’inizio diceva che sarebbe stato temporaneo. Temporaneo. Quante volte noi donne crediamo a questa parola…
Sono passati tre anni. E adesso in casa non c’è più solo la mia famiglia, ma un’intera tribù: ci sono io, mio figlio, sua moglie, i suoi due bambini e… lei è di nuovo incinta. A quanto pare, Dio, nella mia vecchiaia, non mi ha concesso né pace, né tranquillità, né un attimo di respiro. Forse mi sta punendo per qualcosa.
Bianca non è malata, non ha problemi fisici, ha poco più di trent’anni. Ma lavorare non le interessa. Dice che è “occupata con i bambini”. Peccato che i bambini vadano all’asilo tutta la mattina. Ma Bianca no. Lei non va a lavoro. Va a fare shopping. O dalle amiche. O dall’estetista. Dove esattamente? Non lo so.
All’inizio Luca mi rassicurava: avrebbero sistemato i documenti, trovato un lavoro, preso un mutuo o affittato una casa. Io ci ho creduto. Sono una madre, spero sempre. Ma è passato un anno, poi un altro, e siamo al terzo. Nulla è cambiato. A parte la pancia di Bianca, che invece cresce.
Non posso dire che sia sgarbata con me. Non manca di rispetto, parla educatamente. Ma in casa non fa niente. Né pulire, né cucinare, né lavare i piatti. Non si occupa nemmeno davvero dei suoi figli: mette i cartoni, gli dà qualcosa in mano e se ne sta sul cellulare. E la sera? Silenzio da lei, urla dai bambini.
Tutto il lavoro domestico ricade su di me. Mi sveglio alle quattro del mattino. Faccio la donna delle pulizie in due uffici, lavo i pavimenti, torno a casa alle otto e non faccio neanche in tempo a bere un caffè che devo già pulire, cucinare, fare il bucato. Mentre gli altri sono fuori, resto da sola a strofinare la cucina, perché non diventi appiccicosa di grasso, lavo i vestiti, preparo il pranzo. Perché a mezzogiorno tornano mio figlio e sua moglie — e qualcosa da mangiare ci deve essere. Poi ancora faccende, cena, e solo dopo le nove riesco finalmente a sedermi. A volte resto in piedi in cucina e piango. Dall’impotenza.
La mia pensione finisce tra bollette e spesa. Lo stipendio di Luca non basta per tutta questa gente. E Bianca, naturalmente, è “in maternità”. Anche se ancora non l’ha mai fatta davvero.
Qualche giorno fa ho provato a parlare con mio figlio. Gli ho detto che la casa è piccola, che siamo in troppi, che mi sento stanca, che la mia salute vacilla. Sono finita in ospedale — mi è salita la pressione mentre cucinavo. Il medico mi ha proibito di affaticarmi. E lui ha solo alzato le spalle, dicendo:
— Mamma, non vivi qui da sola. La casa è mia tanto quanto tua. Non abbiamo i soldi per andarcene. Devi sopportare.
Ecco fatto.
Ecco la mia gratitudine.
Ecco mio figlio.
Penso di andarmene. Di chiedere un prestito, farmi un mutuo, ma trovare un angolo solo per me. Anche se più piccolo, anche se da ristrutturare. Purché ci sia silenzio. Purché non ci sia nessuno. Perché non ce la faccio più. Non reggerò l’arrivo di un altro bambino. Qui non si vive più, si sopravvive.
Io non vivo più. Io servo. Sono una schiava. Nella mia stessa casa. Nella mia vecchiaia. E la cosa più terribile è che nessuno di loro si chiede mai come mi sento. Loro semplicemente vivono. E aspettano che io cucini, che io pulisca, che io stia zitta.
Vorrei urlare, ma stringo i denti. Non ce la faccio più, eppure continuo. Perché altrimenti ci sarebbero solo sporcizia, fame, freddo. Perché sono una madre. Perché sono una nonna. Perché sono sola.