Nuovi Arrivi nel Quartiere

**I Nuovi Vicini**

Mentre mi avvicinavo al mio palazzo, ho visto uno di quegli scenari che si fissano nella mente: un uomo giovane, sconosciuto, che spingeva avanti un ragazzino con lo zainetto in spalla. Ho accelerato il passo e sono entrata quasi subito dopo di loro.

“Chissà in che appartamento vanno, non li ho mai visti,” ho pensato salendo le scale, mantenendo una certa distanza. Si sono fermati al terzo piano, proprio di fronte al mio. Luomo stava aprendo la porta con le chiavi.

“Buongiorno,” ho detto io, avvicinandomi alla mia porta e frugando nella borsa alla ricerca delle chiavi.

“Buongiorno,” mi ha risposto lui prima di scomparire dentro. Anchio sono entrata nel mio appartamento.

“Nuovi vicini, allora,” ho pensato tra me e me. “Che tipo scontroso. Un grugnito e basta.”

Tre mesi prima avevo partecipato al funerale della signora Paola, che viveva lì. Era stata una maestra delle elementari, gentile e disponibile, ma ormai anziana e malata. Io le visitavo ogni tanto, le facevo qualche commissione quando non stava bene, e poi bevevamo un caffè insieme.

Quella sera, senza aver visto bene i nuovi vicini, ho passato un po di tempo su internet prima di andare a dormire.

Il giorno dopo, sabato, ho dormito fino a tardi. Dopo pranzo, sono uscita per fare la spesa e ho incrociato i nuovi vicini sulla porta. Luomo aveva una barba incolta, uno sguardo severo e i capelli scuri. Stava chiudendo la porta, mentre accanto a lui cera un ragazzino magrolino, sui sette anni, con uno sguardo triste e sfuggente.

Quando luomo mi ha guardato, ho salutato. Lui ha risposto con un “Salve,” mentre il bambino è rimasto in silenzio.

“Voi siete i nuovi vicini?” ho chiesto mentre scendevamo le scale insieme.

“Sì, siamo nuovi,” ha risposto serio, stringendo la mano del bambino.

“Non voglio essere invadente,” ho pensato. “Col tempo si vedrà. Ma perché quel bambino non parla?”

Lavoravo in un negozio vicino a casa, e i ragazzini che passavano dopo scuola erano sempre vivaci e chiassosi. Mi sembrava strano che questo fosse così chiuso. Forse non si era ancora abituato al trasloco.

“E la madre? Non lho mai vista,” mi sono chiesta.

Mi sono venuti in mente pensieri strani, perfino inquietantiche forse quelluomo avesse rapito il bambino. Ma ho scacciato subito quelle idee, decidendo che col tempo avrei capito.

Così è passato un mese. Li vedevo poco. Poi una sera, qualcuno ha suonato alla mia porta. Attraverso lo spioncino, ho riconosciuto il vicino. Lho fatto entrare.

“Buonasera. Scusi il disturbo a questora,” ha detto con educazione. “Non conosco nessuno qui, e mio figlio Ettore ha la febbre. Non so cosa fare. Avete un termometro? Ah, mi chiamo Marco, e lei?”

“Giulia,” ho risposto, invitandolo in cucina.

Ho preso il termometro e delle medicine dalla scatola dei farmaci, mettendo tutto in un sacchettino. “Domani mattina chiamate il medico,” gli ho detto, e lui ha annuito.

La sua faccia non era più così dura. Si vedeva che era preoccupato, e forse un po imbarazzato per aver dovuto chiedere aiuto.

“Grazie. Glorielo ridarò. Non sono abituato a curare mio figlio da solo. Se avete bisogno di qualcosa, chiedete pure,” ha detto.

“Aspetti,” ho aggiunto, porgendogli un piatto con metà della crostata di mele che avevo appena sfornato. “Portatela a Ettore. Che si riprenda, e poi un bambino deve mangiare.”

Marco ha esitato, ma ho insistito. Alla fine ha sorriso, e quel sorriso gli illuminava il viso.

La mattina dopo, anche se era il mio giorno libero, mi sono svegliata presto, preoccupata. “E se Marco deve andare a lavoro? Ettore resterà da solo.” Ho deciso di bussare alla loro porta. Marco ha aperto subito, già pronto per uscire.

“Buongiorno. Dove andate? Come sta Ettore?”

“Buongiorno. Vado al lavoro. Abbiamo dato la medicina e chiamato il medico. La crostata era buonissima, grazie,” ha detto.

“Ma Ettore è da solo. E se sta peggio? Il medico deve visitarlo, qualcuno deve sentire cosa prescrive.”

Siamo entrati entrambi nella camera. Ettore era sdraiato, muto.

“Ciao Ettore, come stai?” ho chiesto, ma lui mi ha solo guardato con tristezza.

Marco mi ha fatto cenno di seguirlo in cucina.

“Ettore non parla più da quando sua madre è morta in un incendio. Noi eravamo dalla mia mamma in quel momento. Il dottore dice che tornerà a parlare, col tempo. Io lavoro nei vigili del fuoco, non posso stare a casa. Ettore è già indipendente, va in seconda elementare. Saprà aprire al dottore.”

“Ma non si può così,” ho detto decisa. “Oggi sono libera, resto io con lui. E poi, come farà a ricordarsi le medicine?”

Marco ha esitato.

“Se non le dispiace, le sarei grato. Scusi, ma devo correre a lavoro. Ecco le chiavi, se servono…” E se nè andato di fretta.

Non sono sposata, non ho figli, ma di solito so come gestire i bambini. Questo però era diversoun bambino muto.

“Ettore, hai mangiato qualcosa?” ho chiesto. Lui ha indicato una tazza vuota e un pezzo di pane avanzato. “Va bene, ti faccio un piatto. Ti piace la frittata?” Ha annuito con un accenno di sorriso.

Aprendo il loro frigo, sono rimasta sconcertata: quasi vuoto. Ho trovato le uova e lho sfamato.

“Devo preparare anche per il pranzo. Magari Ettore avrà fame più tardi, e poi anchio.”

Quando Marco è tornato, ha sentito subito il profumo di cibo. Ettore dormiva, e io mi ero assopita sulla poltrona.

“Oh, buonasera. Non mi ero accorta che fosse già notte. Il medico è venuto tardimolti pazienti oggi. Niente di grave, solo un po di mal di gola. Ecco la ricetta per le medicine. Ho lasciato la minestra e il risotto sul fuoco. E poi il frigo era vuoto.”

“Dovevo fare la spesa questo weekend,” ha detto Marco, guardandomi con gratitudine. “Grazie. Oggi al lavoro mi sono sentito libero, sapevo che Ettore era con voi. Lui mangia a mensa, ma ammetto che avrei dovuto occuparmene meglio.”

Ho annuito, promettendogli che avrei controllato io. Entrambi abbiamo sorriso, e poi sono andata a dormire.

Nei giorni seguenti, Ettore è tornato a scuola. Io lo visitavo spesso.

Una mattina di sabato, mentre buttavo la spazzatura, ho trovato Ettore con lo zaino e una donna sconosciuta che chiudeva la loro porta.

“Buongiorno. Chi è lei? Dovè Marco?” ho chiesto stupita.

“Buongiorno. Sono la maestra di Ettore. Ieri sera suo padre non rispondeva al telefono, così siamo venuti qui e abbiamo passato la notte. Ora andiamo da me.”

Cera un tono di disappunto nella sua voce.

“Sono la vicina, ieri ho lavorato fino a tardi. Ettore può restare con me. E poi do

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