Nutri stranieri ogni sera, per quindici anni – fino a

Per quindici anni, ogni sera alle diciotto, Maria Sartori posava un pasto fumante sulla stessa panchina dipinta di verde nel Parco Sempione, a Milano.Non si fermava mai ad osservare chi lo prendeva, non lasciava biglietti e non lo raccontava a nessuno.

Il gesto era nato come un piccolo rituale dopo la morte del marito, un modo per colmare il silenzio della casa vuota. Con il tempo, divenne unabitudine conosciuta solo da lei e da quegli sconosciuti affamati che trovavano conforto in quel gesto di generosità.

Pioggia o sole, caldo destate o gelo invernale, il piatto era sempre lì. A volte era una zuppa, a volte un ragù, altre volte un panino avvolto con cura in carta cerata e infilato in una busta di cartone marrone. Nessuno ne conosceva il nome; la gente del quartiere la chiamava semplicemente la Signora della Panchina.

Quella sera di martedì, il cielo era carico di nuvole minacciose. Maria, ormai settantatre anni, stringeva il cappuccio più forte mentre attraversava il parco. Le ginocchia pulsavano, il respiro era affannoso, ma le mani rimanevano ferme intorno al piatto ancora caldo.

Lo depose delicatamente, come sempre. Prima che potesse tornare indietro, i fari di un’auto nera squarciarono lombra: un Audi Q7 si fermò sul ciglio del marciapiede. Per la prima volta in quindici anni, qualcuno lattendeva.

Il portellino posteriore si aprì e una donna in un elegante completo blu scuro scese, tenendo in mano un ombrello e una busta sigillata con ceralacca dorata. I tacchi affondavano leggermente nellerba bagnata mentre si avvicinava.

Signora Sartori? chiese con voce tremante.

Maria sbatté le palpebre. Sì la conosco?

La donna offrì un sorriso timido, ma gli occhi le brillavano di lacrime. Mi chiamo Ginevra. Quindici anni fa mangiavo i piatti che mi lasciavi qui.

Maria sentì il petto stringersi. Tu eri una di quelle ragazze?

Eravamo tre rispose Ginevra. Fuggivamo. Ci nascondemmo vicino alle altalene. Quei pasti ci salvarono la vita quellinverno.

Il cuore di Maria si strinse. Oh, cara

Ginevra si avvicinò e pose la busta tra le mani tremanti di Maria. Volevamo ringraziarti. Quello che hai fatto non solo ci ha nutrito, ci ha dato la speranza di credere ancora nella bontà del mondo.

Allinterno cerano una lettera e un assegno. Maria, con la vista annebbiata dalle lacrime, lesse:

> Gentile Signora Sartori,
>
> Ci ha donato cibo quando non avevamo nulla. Oggi vogliamo restituire ad altri la speranza che ci ha dato.
>
> Abbiamo creato il Fondo Borse di Studio Maria Sartori per i giovani senza tetto. I primi tre beneficiari inizieranno luniversità questo autunno. Abbiamo usato il nome che una volta compareva sul nostro sacchetto di pranzo Signora Sartori. È tempo che tutti sappiano chi è stata.
>
> Con affetto,
>
> Ginevra, Alessandra e Maddalena

Maria alzò lo sguardo, le lacrime tracciavano striature sulla sua guancia. Voi ragazze lavete fatto?

Ginevra annuì. Abbiamo tutti collaborato. Alessandra gestisce un rifugio a Napoli, Maddalena è assistente sociale a Bologna, e io ora sono avvocata.

Maria esplose in una risata rotta da singhiozzi. Avvocata, eh? Io non lavrei mai immaginata.

Si sedettero insieme sulla panchina bagnata, dimenticando lombrello. Per un attimo, il parco sembrò rivivere: le risate si mescolavano al fruscio della pioggia, i ricordi fluttuavano nellaria.

Quando Ginevra se ne andò, lAudi scomparve nel grigio della strada, lasciando solo lodore di terra bagnata.

Maria rimase ancora un po, la mano appoggiata al piatto ancora tiepido. Quella sera, per la prima volta in quindici anni, non posò nessun pasto sulla panchina.

Ma la mattina seguente la panchina non era più vuota. Su di essa era stato adagiale un singolo roseto bianco, e sotto, un biglietto scritto con una calligrafia elegante

Quel gesto le ricordò che la bontà, come un fiore, fiorisce anche nei luoghi più inaspettati e ritorna sempre a chi lha seminata.

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