**Gli occhi azzurri del sogno**
Alessandro non aveva mai conosciuto il calore delle mani di sua madre né il suono della voce di suo padre. Non ricordava altro che i corridoi grigi e uguali dell’orfanotrofio di Firenze e i passi silenziosi delle educatrici. Era come se fosse nato lì, tra quelle mura, e non dal grembo di una donna. Gli altri bambini avevano frammenti di ricordi – una culla, il profumo di un profumo, mani premurose – ma lui no. Per lui c’erano solo i giocattoli di plastica fredda e il suono dell’acqua che scorreva nel lavandino.
Ma di notte, tutto cambiava.
Nei suoi sogni, una donna veniva a trovarlo. Si sedeva accanto a lui, lo abbracciava, gli accarezzava i capelli e gli sussurrava parole dolci. Aveva gli occhi come il cielo di primavera dopo un temporale – azzurri, limpidi, infinitamente familiari. Quando si svegliava, rimaneva immobile a fissare il soffitto, temendo che un solo movimento potesse dissipare il calore di quel sogno. Per tutta la giornata, era più silenzioso del solito, ma meno cupo – come se una parte di quella tenerezza fosse rimasta con lui.
Nella realtà, però, le cose erano diverse. Ogni giorno, all’orfanotrofio arrivavano i “visitatori” – potenziali genitori adottivi. I bambini si vestivano a festa, recitavano poesie a memoria e fissavano sorrisi forzati sul volto. Si spingevano, si interrompevano, lottavano per attirare l’attenzione. Ma Alessandro no. Lui non faceva smorfie, non sorrideva, non mendicava sguardi – aspettava. Non chiunque. Solo quella donna, quella degli occhi del suo sogno.
*Alessandro, su, sorridi, ti prego!* – lo supplicava l’educatrice.
Lui però arricciava la fronte con ostinazione e si voltava dall’altra parte. Sapeva che non sarebbe andato con degli estranei. L’avrebbe riconosciuta – quella dei suoi sogni.
Un giorno, in occasione dell’anniversario dell’istituto, arrivò una delegazione. Telecamere, fotografi, una folla di sconosciuti. Alessandro, come al solito, si sedette in un angolo, intenzionato a non farsi notare. Ma il suo sguardo si bloccò su una donna. Alta, slanciata, con i capelli corti e quel sorriso che gli faceva venire i brividi di riconoscimento. E gli occhi… quelli giusti! Il respiro gli si fermò in gola.
Poi, all’improvviso, lei lo guardò. I loro occhi si incontrarono, e per la prima volta in vita sua… sorrise.
L’educatrice lasciò cadere la tazza di tè che teneva in mano. In sei anni di orfanotrofio, Alessandro non aveva mai sorriso. E ora, all’improvviso, lo faceva – luminoso, autentico.
La donna si avvicinò. Si sedette accanto a lui. Lui non distolse lo sguardo. Ascoltava, rideva, faceva domande. Senza paura. Con lei, era esattamente come nei sogni: leggero, al sicuro, finalmente se stesso.
Da quel giorno, lei cominciò a venire a trovarlo. Senza telecamere, senza delegazioni. Portava libri, passeggiavano insieme nel cortile, parlavano delle nuvole e delle città che aveva visitato. Poi, scomparve. Per un mese intero. Alessandro non chiese spiegazioni alle educatrici – aveva paura di sentire che non sarebbe più tornata.
Ma tornò. Senza trucco, con una giacca semplice. E gli disse:
*Alessandro, sono venuta a portarti a casa. Sarai mio figlio.*
Lui non ci credeva. Pensava di sognare. Si pizzicò il braccio – faceva male. Era tutto vero. Non disse una parola, solo la strinse forte in un abbraccio. A lungo. In silenzio. Come sapeva fare solo lui.
Più tardi, lei gli presentò suo marito. Un uomo semplice e bonario, che lo accolse come un figlio. Insieme, ricominciarono da zero. La prima torta nella loro nuova casa. La prima gita nel bosco. La prima sera in cui non dovette addormentarsi al suono di passi estranei nel corridoio.
Alessandro non tornò mai più all’orfanotrofio. Solo, a volte, passando davanti allo specchio, si accorgeva che nei suoi occhi c’era quella stessa luce – azzurra, calda, come quella di lei. La sua nuova mamma. Quella vera.