Ombra del Calcolo

Di Ada e sua suocera, Isabella Conti, si sentiva fin dal primo incontro un gelo sottile. Come se un muro invisibile le separasse, impedendo ad Ada di ricevere quel calore che sperava di trovare nella nuova famiglia. La suocera la osservava come un’ospite indesiderata, intrusa nel loro mondo perfetto. Nella sua vasta villa alla periferia di un borgo marino, tutto parlava di agiatezza: pavimenti di marmo, quadri in cornici dorate, lampadari di cristallo. Ma sotto quella patina di eleganza si nascondeva il vuoto, freddo e calcolatore come la tramontana di gennaio.

Ada evitava quegli incontri. Suo marito, Marco, la spronava a migliorare i rapporti, sostenendo che sua madre era solo “lenta ad aprirsi”. Ma ogni visita era una prova. I discorsi scivolavano immancabilmente sui soldi: quanto costava la ristrutturazione, come investire il capitale, chi doveva cosa a chi. Per Isabella Conti, ogni cosa aveva un prezzo, persino i legami di sangue. Ada si sentiva una merce valutata, ma mai accettata.

Passarono anni. Una sera tarda, squillò il telefono. La voce di Isabella, di solito tagliente e sicura, tremava: era gravemente malata. Chiedeva aiuto ad Ada. La ragazza restò immobile, stringendo l’apparecchio. Le tornarono alla mente anni di indifferenza, commenti pungenti, sguardi di superiorità. Andare o no? Il cuore le si lacerava tra il risentimento e il dovere. Alla fine, vinse il dovere. Preparò una valigia e raggiunse la villa sul mare.

Trovò Isabella nella camera da letto. La donna giaceva avvolta in una coperta leggera, il volto scavato, lo sguardo spento. Si lamentava del dolore, della debolezza, della solitudine. Ada la osservava, chiedendosi se quella fragilità fosse sincera o solo un altro gioco. Ma i dubbi svanirono quando la suocera le afferrò la mano, supplicandola di non abbandonarla. Ada chiamò i dottori, organizzò il ricovero, trascorse ore al capezzale, trattando con le infermiere.

Le cure durarono settimane. Isabella si riprese lentamente. Quando fu dimessa, Ada l’accompagnò a casa, pulì, cucinò. Aspettava almeno una parola di gratitudine, un segno che i suoi sforzi fossero apprezzati. Ma invece, seduta nella sua poltrona di pelle, Isabella chiese con voce gelida:

— Quanto ti devo per tutto questo?

Ada si bloccò, sentendo qualcosa spezzarsi dentro.

— Come può parlare così? L’ho aiutata perché… perché era giusto! — la sua voce tremava di rabbia.

— Non fare la ingenua, — sorrise la suocera, ma era un sorriso vuoto. — Pago sempre per i servizi ricevuti. È il mio modo di ringraziare. I soldi sono la migliore dimostrazione di stima.

— Crede davvero che tutto si possa comprare? — Ada strinse i pugni. — Se fosse una vera madre, Marco si prenderebbe cura di lei. Non avrebbe bisogno di supplicarmi di nascosto.

Isabella aggrottò le sopracciglia. Le labbra le tremarono, ma non rispose. Nei suoi occhi passò qualcosa—forse dolore, forse stupore. “Perché mi odia così? — pensò. — Io vivo solo secondo le mie regole. È forse un crimine?”

Ada se ne andò senza aggiungere altro. Il giorno dopo, un bonifico arrivò sul suo conto. La notifica della banca le bruciò gli occhi. La somma era generosa, ma per lei fu come uno schiaffo. Non restituì i soldi—non per avarizia, ma per stanchezza. Discutere con Isabella era come sbattere contro un muro di pietra.

Marco non seppe mai nulla. Continuò a vedere in sua madre una donna dal cuore buono, incapace di meschinità. Ada non volle distruggere quell’illusione. TacquEppure, ogni volta che Marco la sfiorava, lei sentiva quel muro invisibile ergersi ancora più alto, fatto non di parole, ma di tutto ciò che sarebbe rimasto per sempre non detto.

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