Fin dai primi giorni in cui Beatrice aveva conosciuto la suocera, Silvana Rossetti, tra loro era calato un gelo. Era come se un muro invisibile le separasse, togliendo a Beatrice quel calore che sperava di trovare nella nuova famiglia. Silvana la guardava come un’ospite indesiderata, un’intrusa nel loro mondo perfetto. Nella sua grande villa alla periferia di Rapallo, tutto gridava ricchezza: pavimenti in marmo, quadri con cornici dorate, lampadari di cristallo. Ma dietro quella perfezione si nascondeva un vuoto—freddo e calcolatore come il vento di gennaio sul mare.
Beatrice cercava di evitare gli incontri. Suo marito, Matteo, la spronava a migliorare i rapporti, dicendole che la madre era solo “lenta ad affezionarsi”. Ma ogni visita diventava una prova. I discorsi finivano sempre sui soldi: quanto costava la ristrutturazione, dove investire, chi doveva cosa a chi. Per Silvana, tutto aveva un prezzo, persino i legami di sangue. Beatrice si sentiva come una merce valutata, ma mai accettata.
Passarono anni. Una sera tarda, squillò il telefono. La voce di Silvana, di solito tagliente e sicura, tremava: si era ammalata gravemente. Chiedeva aiuto a Beatrice, che rimase immobile, stringendo il cellulare. Le tornarono in mente anni di indifferenza, commenti taglienti, sguardi pieni di superiorità. Andare o no? Il cuore le doleva tra risentimento e senso del dovere. Alla fine, vinse il dovere. Preparò una borsa e partì per la villa sul mare.
Trovò Silvana a letto, avvolta in una coperta leggera, il volto scavato e gli occhi spenti. Si lamentava del dolore, della debolezza, della solitudine. Beatrice la osservava, chiedendosi se quella fragilità fosse reale o solo un’ennesima manipolazione. Ma ogni dubbio svanì quando la suocera le afferrò la mano, supplicandola di non abbandonarla. Chiamò i medici, organizzò il ricovero, passò ore al capezzale, parlando con infermiere e dottori.
Le cure durarono settimane. Silvana si riprese lentamente. Quando la dimisero, Beatrice la riportò a casa, pulì, preparò da mangiare. Sperava almeno in un grazie, un segno che il suo impegno fosse stato apprezzato. Invece, seduta nella sua poltrona di pelle, Silvana le chiese con tono glaciale:
– Quanto ti devo per tutto questo?
Beatrice si bloccò, sentendo qualcosa spezzarsi dentro.
– Come fa a dirmelo? L’ho aiutata perché… perché era giusto! — la sua voce tremava di rabbia.
– Non fare la ingenua, — sorrise Silvana, ma il sorriso era vuoto come le sue parole. — Io pago sempre per i servizi. È il mio modo di ringraziare. I soldi sono la migliore dimostrazione di riconoscenza.
– Crede davvero che tutto si possa comprare? — Beatrice serrò i pugni. — Se fosse una vera madre, Matteo si sarebbe preso cura di lei. Non avrebbe dovuto supplicarmi di nascosto da lui.
Silvana aggrottò la fronte. Le labbra le tremarono, ma non rispose. Nei suoi occhi passò qualcosa—forse dolore, forse stupore. “Perché mi odia così? — pensò la suocera. — Io vivo solo secondo le mie regole. È forse un crimine?”
Beatrice se ne andò senza aggiungere altro. Il giorno dopo, un bonifico apparve sul suo conto. La notifica della banca le bruciò gli occhi. La cifra era generosa, ma per lei fu come uno schiaffo. Non restituì i soldi—non per avarizia, ma per stanchezza. Discutere con Silvana era come sbattere contro un muro di pietra.
Matteo non seppe mai nulla. Continuò a vedere in sua madre una donna dal cuore buono, incapace di meschinità. Beatrice non volle distruggere quell’illusione. Tacque, nascondendo la verità in fondo all’anima, sapendo che a volte il silenzio vale più di qualsiasi rivelazione. Ma ogni volta che guardava il marito, sentiva crescere tra loro un’ombra—l’ombra del calcolo, gettata dalla madre di lui.