Ombre di Illusioni

**Miraggio**

A tavola, mio padre mi lanciava sguardi carichi di disapprovazione. Andrea aveva capito: sua madre gli aveva detto che voleva iscriversi a un’università di Roma dopo il diploma.

Con un gesto secco, mio padre spinse via il piatto vuoto e mi fissò intensamente. «Adesso succederà qualcosa», pensai. Avrei voluto sprofondare o diventare invisibile. Ogni boccone di pasta si incastrava in gola, impossibile mandarlo giù o sputarlo sotto quello sguardo furioso.

Fu mia madre a salvarmi. Distrasse papà, gli posò davanti una tazza di tè, gli avvicinò il vassoio con i biscotti.

«Grazie, mamma, sono sazio. Berrò il tè dopo», dissi, alzandomi.

«Siediti!» ringhiò mio padre. Andrea sapeva che era inutile discutere, quindi obbedì.

«Devo fare i compiti…» provai a dire.

«Hai tempo. Tua madre mi ha detto che vuoi andare a Roma. Che problema hai qui? Ti abbiamo cresciuto, speravamo in un aiuto per la vecchiaia, e tu vuoi scappare?»

«Non sto scappando…» borbottai.

«Che ci sarà di così speciale a Roma, eh?»

«Ci sono più opportunità. Voglio diventare architetto, qui non c’è la facoltà». Alzai la voce anch’io.

«Sandro, lascialo andare, gli insegnanti lo lodano», intervenne mia madre con tono pacato, poggiando una mano sulla spalla di mio padre.

«Non abbiamo i soldi per pagarti gli studi. Lì è tutto a pagamento, qui è gratis. Vedi la differenza?» si infiammò mio padre.

«Entrerò in graduatoria», ribattei ostinato. «Andrò comunque.»

«Sandro, calmati, non parte domani, ci sono ancora gli esami. Vai, figliolo, fai i compiti». Mia madre mi accennò la porta con un’occhiata. Non mi feci ripetere due volte.

«Basta assecondarlo! Lo abbiamo cresciuto per dispetto. E adesso chi mi porterà un bicchiere d’acqua in vecchiaia?» Andrea si bloccò sulla soglia della sua stanza, ascoltando con la mano sulla maniglia.

«Calmati. È presto per parlare di vecchiaia. Roma è vicina, due ore e mezza di treno, verrà a trovarci…»

Mio padre borbottò qualcosa di incomprensibile.

«Bevi il tè, prima che si freddi. Vuoi un po’ di zucchero?» chiese mia madre.

«Ma smettila, come fossi un bambino… Lo faccio da solo…» brontolò mio padre irritato.

La tempesta sembrava passata. Andrea si chiuse in camera. Il cuore gli cantava in petto. Era ancora marzo, mancavano due mesi di scuola, gli esami, ma non importava. Lui sarebbe andato a Roma, lo aspettava una vita interessante, centinaia di opportunità. Ce l’avrebbe fatta…

Dopo la festa di diploma, Andrea e sua madre partirono per consegnare i documenti. A riceverli, la cugina di lei, una donna sgraziata e sola, li accolse con freddezza. Si lamentò dei parenti che venivano tutti a Roma, e lei non era un albergo…

«Vedrai, sarà più vivace. Solo che ho la pressione alta e dormo male. Niente rientri tardi, niente ospiti. Preparerò la colazione, condividerò la cena, ma a pranzo arrangiati».

Mia madre annuì in silenzio.

«Quanto vuoi per l’affitto?» chiese cauta, sperando che la cugina rifiutasse o si offendesse. Ma non fu così.

«Sai com’è, Roma non è come il vostro paesino…» fece una smorfia. «La vita è cara qui. Quindi, non te la prendere…» e nominò una cifra astronomica.

Mia madre sussultò e mi guardò.

«Mamma, preferisco il dormitorio…»

«Ma no, figliolo. Come fai a studiare? Io e tuo padre ti manderemo i soldi, non preoccuparti».

«Sentila come parla. Da poco a Roma e già fa la schizzinosa. Tu non dire niente a tuo padre dei soldi. Ci penso io». Mia madre sospirò sul treno del ritorno.

Andrea fu ammesso. Arrivò a Roma qualche giorno prima delle lezioni per ambientarsi. Dalla periferia all’università sarebbe stato un viaggio con cambi, scomodo e lungo. Ma era pur sempre Roma!

Usciva all’alba e vagava per la città fino a sera. A Gianicolo, il panorama mozzafiato lo lasciò senza fiato. Un gruppo di turisti si fermò vicino, con una guida giovane e simpatica che raccontava storie.

Andrea si avvicinò. Lei lo notò ma non disse nulla. Poi il gruppo se ne andò, ma lei rimase, guardando il telefono.

«Racconta bene», dissi. Sorrise e chiese da dove venissi.

«Si nota così tanto?» mi rattristai.

«Si riconoscono gli occhi dei forestieri, persi e incantati».

Le raccontai degli studi, del fatto che vivevo in periferia, che non era davvero Roma. Sembrava di non essermene mai andato dal mio paese. Mentre parlavamo, ci allontanammo senza accorgercene.

«Io abito qui», disse all’improvviso. «Sei stanco? Su, vieni a bere un tè. Ho un po’ di tempo. Poi devo prendere mia figlia all’asilo». Rise vedendo la mia espressione.

Si chiamava Diana. Era quasi il doppio della mia età. Mi offrì minestra e tè. Mi sentivo a casa, non volevo andarmene.

«Posso tornare?» chiesi mentre partivo.

Mi guardò attentamente, senza superiorità né ironia.

«Torna pure».

Resistetti un giorno, poi il terzo caddi. Ero davanti a casa sua, indeciso. La vidi uscire con sua figlia. Iniziai a balbettare scuse, ma lei capì subito. Mentre giocavo con Ginevra, Diana cucinava. Cenammo insieme. La bambina non voleva lasciarmi andare, voleva che la mettessi a letto e le leggessi una storia.

E poi… Era troppo tardi per tornare dalla cugina.

«Resta», disse Diana.

Restai. Dissi ai miei genitori che vivevo in un appartamento condiviso con un compagno di corso, pagato da papà. A mia madre continuai a chiedere soldi di nascosto.

In vacanza tornavo a casa, ma contavo i giorni per tornare a Roma. Il mio paese mi sembrava piccolo, stretto, noioso.

Passavo sempre più tempo con Ginevra. Mi vergognavo di vivere alle spalle di Diana, così al secondo anno passai a Lettere e mi misi a lavorare. E così, quella notte divennero anni.

Al terzo anno conobbi Valeria, una ragazza vivace e bella. Iniziai a rientrare tardi, evitando lo sguardo di Diana. Lei annuiva triste e mi riscaldava la cena. Di notte mi giravo, fingevo stanchezza, ma sognavo Valeria.

«Hai un’altra?» chiese Diana una volta. «Non sei mio marito, sei libero».

AmAndrea promise di rimanere accanto a Ginevra e al suo bambino, perché finalmente capì che la vera felicità era stata sempre lì, solo che non aveva saputo vederla.

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