**Ombre in Cucina**
Quando Marco trovò per la terza volta una fetta di crostata di pere sul tavolo della cucina, che di certo non aveva portato lui, la paura non arrivò. Nemmeno la sorpresa. Solo stanchezza, quella pesante, che ti si incolla alle ossa. Era stanco delle notti insonni, dei viaggi in ufficio attraverso una città umida dove ormai nessuno incrociava più lo sguardo. Stanco delle chiacchiere vuote, delle storie altrui su vacanze e gadget, dei sorrisi che doveva forzarsi a fare. Ma soprattutto, era stanco della solitudine. Non lo abbandonava né nel frastuono delle stazioni, né nella musica alta, né nelle infinite serie tv. Era lì, accanto a lui. A tavola. Sul divano. Nei messaggi non letti che rimanevano in sospeso nell’app di chat.
Viveva da solo da quasi tre anni. Dopo che Alessia se n’era andata, l’appartamento aveva conservato a lungo il suo profumo, leggero, con note di lavanda. Adesso non odorava più di nulla. Di vuoto, se il vuoto ha un odore. Un silenzio pulito, sterile. Non silenzio, ma uno spazio senz’aria dove tutto era al suo posto, tranne l’anima.
La prima volta, la crostata era apparsa un sabato mattina. Una fetta perfetta sul piatto, come appena sfornata. Marco pensò che fosse la stanchezza a giocargli brutti scherzi. Forse l’aveva comprata in pasticceria e se n’era dimenticato? La seconda volta, un martedì. La stessa crostata, ancora tiepida, con un delicato aroma di vaniglia. Pensò a suo amico Enrico, che aveva una copia delle chiavi, ma Enrico era in vacanza e postava foto dai laghi del Trentino, ridendo delle zanzare locali.
Alla terza volta, Marco tagliò la crostata. Semplice, con vaniglia, leggermente caramellata in superficie. Il sapore gli ricordò l’infanzia, come quelle che faceva la zia in campagna: dolce, con pezzi grandi di pere. Non la mangiò—la osservò. Era troppo fresca, come se qualcuno l’avesse appena lasciata lì ed fosse uscito. Avvolse la fetta nella stagnola e la mise in frigo, come una prova. Controllò la serratura—intatta. Le finestre—chiuse. Le chiavi—erano solo sue, di Enrico e di suo padre, che viveva in mezzo al nulla e di certo non sarebbe venuto da Milano con una crostata. Tutto tornava. Tranne la crostata.
Quella notte, sognò la cucina. Non solo una stanza, ma qualcosa di vivo, che respirava. La luce era soffusa, profumava di pere e di fresco, come dopo la pioggia. Qualcuno era lì, invisibile ma vicino. Si svegliò alle tre di notte, andò a prendere un bicchiere d’acqua e si bloccò. Nel lavello c’era una forchetta. Bagnata. Eppure aveva cenato con un panino—niente stoviglie. Il cuore gli batté forte, non per paura, ma per una strana certezza: non era un caso.
Nei giorni seguenti, tutto cambiò. In modo impercettibile. Incomprensibile. La sua tazza era spostata all’altro lato del tavolo. La coperta sul divano era piegata diversamente—senza ordine, ma in un modo che gli era familiare. Lo specchio nell’ingresso si era leggermente girato. La camicia che aveva buttato nel cesto del bucato era appesa sulla sedia. Non era spaventoso. Non come nei film dell’orrore. Piuttosto, sembrava che qualcuno fosse lì. Con delicatezza. Quasi con tenerezza. Come se qualcuno stesse tornando in un posto che un tempo era stata casa.
Marco iniziò a parlare nel vuoto. Prima con ironia, come per prendersi in giro, per vedere se l’eco avrebbe risposto. Poi, più seriamente. La sua voce suonava stranamente naturale nel silenzio. Scherzava. Chiedeva consigli. Come faceva con Alessia, quando lei sedeva di fronte a lui, scaldando le mani sulla tazza, e lo ascoltava senza interrompere. *”Anche a te sembra che io beva più tè del solito?”* o *”Ti ricordi quando litigammo per le tende e poi non ci parlammo per una settimana?”*. A volte gli sembrava di ricevere una risposta. Non parole—una sensazione. Una pausa in cui l’aria diventava più calda, più densa. Come se le pareti non solo ascoltassero, ma capissero.
Un giorno, non ce la fece più. Comprò due tè al bar—uno per sé, l’altro così, perché non poteva fare altrimenti. Posò la seconda tazza di fronte a sé. Con delicatezza. Non per fede, ma per necessità. Per ammettere: qualcuno c’era. Almeno un po’. Almeno come un’ombra.
Durò dieci giorni. Poi arrivò Alessia.
Aprì la porta con la sua chiave, appoggiò lo zaino accanto all’ingresso e disse:
—Avevo dimenticato come odora la tua casa.
Era in piedi, leggermente china, come se temesse che lui la cacciasse. Marco la guardò come si guarda un miraggio: familiare fino all’ossessione, ma come appartenente a un’altra vita. Non trovò le parole. In gola rimasero tutte le domande accumulate in mesi. Non piangeva. Nemmeno lui. Si sedettero a tavola. Tra loro, un silenzio carico di cose non dette.
Lei alzò lo sguardo e chiese:
—Hai sentito che ero qui vicino?
Lui annuì. Lentamente, quasi impercettibilmente, temendo che un movimento troppo brusco potesse spaventarla.
—Non potevo non tornare. Almeno così. Almeno attraverso un profumo. Almeno attraverso piccole cose. Non mi mancavi tu—mi mancava ciò che eravamo.
—Eri qui. Un’ombra.
—Un’ombra,—ripeté lei.—Ma adesso… me ne andrò. Davvero. Senza lasciare tracce. Senza dolore.
Lui la guardò come si guarda qualcosa di fragile, che sta per svanire, ma che ormai non gli apparteneva più.
—Vuoi ancora un po’ di tè?—chiese.
Lei sorrise—leggera, con una malinconia che stringeva il cuore.
—Ancora un po’. Finché sono un’ombra.
Bevvero il tè in cucina. Una sera. Un profumo. Un addio che non fece male. Lasciò solo calore, come una vecchia lettera ritrovata in un cassetto.
Se ne andò. Marco rimase solo. Ma il silenzio non era più morto. C’era un respiro—debole, ma vivo. Un ricordo. Una tazza.
Una forchetta—non un segno di solitudine, ma la traccia di qualcuno che c’era stato. Qualcosa che era stato. E che rimaneva.
E quella fetta di crostata che aveva preparato lui stesso. Un po’ sbilenca, bruciacchiata ai bordi, ma sua. Non come l’altra, ma in quella differenza c’era la verità.
A volte, per lasciar andare, bisogna prima accogliere. Non una persona, ma sé stessi accanto a lei. Almeno come un’ombra. Almeno quasi. Per capire che anche un *”quasi”*—è pur sempre qualcosa.