Ombre in Cucina

**Ombre in Cucina**

Quando Marco trovò per la terza volta una fetta di torta di pere sul tavolo della cucina, che di certo non aveva portato lui, non provò paura. Nemmeno sorpresa. Solo una stanchezza pesante, come se gli avesse impregnato le ossa. Era stanco delle notti insonni, dei viaggi in ufficio attraverso una città umida dove i passanti non incrociavano più lo sguardo. Stanco delle chiacchiere vuote, delle storie altrui su vacanze e gadget, dei sorrisi che doveva forzare. Ma soprattutto era stanco della solitudine. Non lo abbandonava né nel frastuono delle stazioni, né nella musica alta, né nelle serie tv infinite. Era lì, seduta accanto a lui. A tavola. Sul divano. Nei messaggi non letti che restavano appesi in chat senza risposta.

Viveva da solo ormai da tre anni. Dopo che Lucia se n’era andata, l’appartamento aveva conservato a lungo il suo profumo, leggero, con note di lavanda. Adesso non odorava più di niente. Di vuoto, se il vuoto ha un odore. Silenzio pulito, sterile. Non silenzio—spazio senz’aria, dove tutto era al suo posto, tranne l’anima.

La torta era comparsa per la prima volta un sabato mattina. Una fetta perfetta sul piatto, come appena sfornata. Marco pensò che fosse la stanchezza a giocargli brutti scherzi. Forse l’aveva comprata in pasticceria e se n’era dimenticato? La seconda volta, un martedì. La stessa torta, ancora tiepida, con un delicato aroma di vaniglia. Pensò a suo amico Luca, che aveva una chiave di riserva. Ma Luca era in vacanza, postava foto dai laghi del Trentino e rideva delle zanzare locali.

Alla terza volta, Marco tagliò la torta. Semplice, alla vaniglia, leggermente caramellata in superficie. Il sapore gli ricordò l’infanzia, quando sua zia la preparava in campagna: dolce, con grossi pezzi di pere. Non la mangiò—la osservò. Era troppo fresca, come se qualcuno l’avesse appena lasciata lì. Avvolse una fetta nella stagnola e la mise in frigo, come fosse una prova. Controllò la serratura—intatta. Le finestre—chiuse. Le chiavi—erano sue, di Luca e di suo padre, che viveva in mezzo al nulla e di certo non sarebbe venuto a Roma con una torta. Tutto tornava. Tranne la torta.

Di notte sognò la cucina. Non solo una stanza—viva, che respirava. La luce era soffusa, odorava di pere e di freschezza, come dopo un temporale. Qualcuno era lì, invisibile ma vicino. Si svegliò alle tre, andò a prendere un bicchiere d’acqua—e si bloccò. Nel lavello c’era una forchetta. Bagnata. Eppure aveva cenato con un panino—senza usare le posate. Il cuore gli batté forte, non per paura, ma per una strana sensazione di riconoscimento: non era un caso.

Nei giorni successivi, tutto cambiò. Quasi impercettibilmente. In modo inspiegabile. La sua tazza era all’altro capo del tavolo. La coperta sul divano era ripiegata diversamente—senza criterio, ma in un modo che gli era familiare. Lo specchio nell’ingresso era leggermente girato. La camicia che aveva buttato nel cesto del bucato era appesa a una sedia. Non era spaventoso. Non come nei film horror. Era come se qualcuno fosse lì, con delicatezza. Quasi con tenerezza. Come se stesse tornando in un posto che un tempo era stato casa.

Marco cominciò a parlare nel vuoto. Prima con ironia, come per prendersi in giro, per vedere se l’eco avrebbe risposto. Poi sempre più serio. La sua voce suonava stranamente naturale in quel silenzio. Scherzava. Chiedeva consigli. Come faceva con Lucia, quando lei sedeva di fronte a lui, scaldando le mani attorno alla tazza, e lo ascoltava senza interrompere. *”Anche a te sembra che beva più tè del solito?”* o *”Ti ricordi quando litigammo per le tende e poi non ci parlammo per una settimana?”*. A volte gli pareva di sentire una risposta. Non parole—una sensazione. Una pausa in cui l’aria diventava più calda, più densa. Come se le pareti non solo ascoltassero, ma capissero.

Una volta non resistette. Comprò due tè al bar—uno per sé, l’altro così, perché non poteva fare altrimenti. Posò la seconda tazza di fronte a sé. Con delicatezza. Non per fede, ma per necessità. Per ammettere: *qualcuno è qui*. Anche se solo un poco. Anche se solo un’ombra.

Durò dieci giorni. Poi arrivò Lucia.

Aprì la porta con la sua chiave, posò lo zaino accanto all’ingresso e disse:

—Avevo dimenticato come odora la tua casa.

Era lì, leggermente curva, come se temesse di essere cacciata. Marco la guardò come si guarda un miraggio: familiare fino al brivido, eppure appartenente a un’altra vita. Non aveva parole. In gola si erano bloccate tutte le domande accumulate in mesi. Non piangeva. Lui nemmeno. Si sedettero a tavola. Tra loro, un silenzio carico di cose non dette.

Lei alzò lo sguardo e chiese:

—Hai sentito che ero qui vicino?

Lui annuì. Lentamente, quasi impercettibilmente, temendo che un movimento troppo brusco potesse farla sparire.

—Non potevo non tornare. Anche solo così. Anche solo con un profumo. Anche solo con piccole cose. Non mi mancavi tu—mi mancava ciò che eravamo.

—Eri qui. Un’ombra.

—Un’ombra —ripeté lei. —Ma adesso… me ne andrò. Davvero. Senza lasciare tracce. Senza dolore.

La guardò come si guarda qualcosa di fragile, che sfugge tra le dita, ma che ormai non gli appartiene più.

—Un altro tè? —chiese lui.

Lei sorrise—leggera, con una malinconia che gli strinse il cuore.

—Un altro. Finché sono ancora un’ombra.

Bevvero il tè in cucina. Una sera. Un profumo. Un addio che non fece male. Lasciò solo calore, come una vecchia lettera ritrovata in un cassetto.

Lei se ne andò. Marco rimase solo. Ma il silenzio non era più morto. Respirava—debolmente, ma era vita. Memoria. Una tazza.

Una forchetta—non un segno della solitudine, ma una traccia del fatto che qualcuno era stato lì. Qualcosa era successo. E rimaneva.

E una fetta di torta, che aveva preparato lui stesso. Un po’ sbilenca, bruciata ai bordi, ma sua. Non come quella di prima, eppure in questo c’era verità.

A volte, per lasciar andare, bisogna prima accogliere. Non una persona—ma sé stessi accanto a lei. Anche se solo un’ombra. Anche se quasi. Per capire che persino “quasi” è già qualcosa.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

seven + four =

Ombre in Cucina