**Operazione Fallita**
Mi ritrovai fuori dalla macchina più che uscito, stravolto. Solo tre operazioni di routine, eppure mi sembrava di aver trascinato sacchi di cemento per tutto il turno. La schiena mi bruciava, la testa martellava, e gli occhi erano due tizzoni accesi.
A casa mi lasciai cadere sul divano senza neanche togliermi il cappotto, chiusi gli occhi e caddi in un sonno pesante. Mi svegliò il trillo insistente del telefono, una suoneria allegra che mi trapanava il cervello. Il collo indolenzito, le membra di piombo. «Diamine, mi sa che mi sono ammalato», pensai, sfregandomi gli occhi.
Il telefono tacque un attimo, poi ripartì con la sua melodia ossessiva. «Dovevo cambiarla da un secolo.» A malincuore, estrassi il cellulare dalla tasca.
«Pronto?» risposi con voce rauca. Mi schiarii la gola. «Sì?» ripetei, più fermo.
«Enzo, sono all’aeroporto. L’aereo parte tra un’ora. Mio padre è in ospedale con un infarto. Fammi un favore, coprimi, eh? Non ho nessun altro a cui chiedere.» La voce di Gianni, mio collega e amico, riempì l’orecchio.
«Non… sto bene. Sono malato. Chiama Luca.»
«Dài, su. Un caffè, un antivirale, e ti rimetti in piedi. Luca ha la moglie, lo sai, un turno extra lo prenderebbe come un tradimento. Ivan è ancora inesperto. Il vecchio Rossi non regge due turni di fila, non ha più l’età. Torno dopodomani. Fammi sto favore? Ti ripago.»
«Insomma, muori pure, ma l’amico va aiutato. Che tempismo» pensai.
«Va bene» sospirai, rassegnato.
«Cos’hai detto?» chiese Gianni.
«Dico di sì. Copro il turno. Buon viaggio.»
«Sei un vero amico! Io per te—» iniziò a tartagliare entusiasta, ma riattaccai senza ascoltare.
Avevo ancora tempo prima del turno notturno. Feci una doccia, mi rasai, bevvi un caffè forte. Mi sentivo un po’ meglio. Tornare in ospedale, da cui ero uscito poche ore prima, era l’ultima cosa che volevo. «Ce la farò. Non succederà niente», mi dissi mentre mi vestivo.
Per qualche ora, il reparto fu tranquillo. Il sonno mi abbatteva come un macigno, la testa ciondolava verso il tavolo. Mi scrollai, cercando di scacciare la nebbia. Un altro caffè mi tenne sveglio, ma solo per poco.
«Dottor Enzo» sentii chiamare da lontano. Una mano mi scuoteva la spalla.
Mi ero addormentato. Alzai la testa dal tavolo. Davanti a me c’era l’infermiera Silvia.
«Dottor Enzo, hanno portato un ragazzino…»
«Sì, arrivo» dissi, scrollandomi di dosso gli ultimi brandelli di sonno.
Mi sciacquai la faccia con acqua fredda, mentre il bollitore scaldava. Misurai due cucchiaini di caffè nella tazza, poi, dopo un attimo, ne aggiunsi un terzo. Lo trangugiai bollente, aggiustai il berretto e scesi al pronto soccorso.
Un ragazzino di dodici anni giaceva raggomitolato sul lettino. Lo visitai con cautela.
«Sua madre?» chiesi alla donna magra e pallida accanto a lui.
«Che ha, dottore?» mi fissò con occhi enormi, pieni di terrore.
«Perché non ha chiamato prima l’ambulanza?» domandai brusco, accusatorio.
«Io… sono tornata dal lavoro, lui stava facendo i compiti. Poi ha vomitato. E la febbre è salita. Non mi ha detto che gli faceva male la pancia da giorni. Cosa gli è successo?» Agguantò il mio braccio, disperata.
«Silvia, una barella!» gridai, senza distogliere lo sguardo dal volto smunto della donna. Mi liberai dalla sua stretta. «Firmi il consenso per l’operazione.» Le porsi il foglio.
«Un’operazione? Ha l’appendicite?»
«Peritonite.» La guardai con compassione.
Nei suoi occhi si stampò l’orrore.
«Firmi. Non possiamo perdere tempo» ripetei.
Sottoscrisse senza leggere, poi afferrò di nuovo il mio braccio.
«Dottore, salvi mio figlio!»
«Farò tutto il possibile. Ora non mi intralci.»
Silvia aveva già portato la barella. Insieme vi adagiammo il ragazzo e lo spingemmo verso l’ascensore. Nel corridoio vuoto, i nostri passi frettolosi e lo scricchiolio delle ruote malconce risuonavano come tuoni.
La donna ci seguiva, parlando senza sosta, ma io non l’ascoltavo. Pensavo solo all’operazione.
Quando entrai in sala operatoria, il ragazzo era già sotto anestesia. Tutto il resto sbiadì. Le mie mani lavoravano da sole, la mente era lucida. L’intervento andava avanti da due ore. Per un istante, chiusi gli occhi esausti, finché un grido di Silvia mi riportò alla realtà.
Sotto le mie dita, il sangue sgorgava a fiotti, inondando il campo operatorio.
«La pressione crolla!» urlò l’anestesista.
Uscì lentamente dalla sala. La camice fradicia di sudore mi si attaccava alla schiena. Le gambe mi tremavano per la fatica e la tensione. Mi appoggiai alla parete fresca. Una donna mi correva incontro. «La madre» capii.
Si fermò a un passo da me, come sbattendo contro un muro invisibile. Pallida, occhi smisurati, divorati dalla paura e dall’attesa.
Distolsi lo sguardo. Lei sospirò, o singhiozzò, si coprì la bocca con una mano e barcollò. La afferrai prima che svenisse, la adagiai su una sedia vicino alla porta.
«Silvia, l’ammoniaca!» gridai nel corridoio vuoto.
Silvia arrivò di corsa con la boccetta, gliela pose sotto il naso. La donna scosse la testa, respingendo l’odore acre, poi aprì gli occhi.
«Sta meglio?» le chiesi, scrutando il suo volto smorto.
Non rispose. Si alzò lentamente e si allontanò lungo il corridoio deserto. La guardai andare. «Solo una donna può resistere così» pensai.
Nella stanza dei medici rimasi a lungo seduto, la testa tra le mani. Poi iniziai a scrivere il referto dell’operazione. Onestamente.
«Enzo…» Silvia entrò, esitante.
«Che c’è ancora?» sbuffai, continuando a scrivere.
«Non è colpa sua se il ragazzo è morto» sussurrò.
«Fammi un caffè. Forte» le ordinai, senza alzare lo sguardo.
Sentii il bollitore fischiare. Poi l’aroma del caffè. Lo trovai disgustoso, amaro. Senza finirlo, lo versai nel lavandino.
Mentre lavavo la tazza, il cuore iniziò a farmi male. Sembrava ingrandirsi dentro di me, sul punto di scoppiare o di sfondare la gabbia toracica. Il respiro si fece corto, la vista si oscurò…
«Sei sveglio?» una voce familiare mi raggiunse.
AprEra finita la mia vecchia vita, ma forse, proprio in quel dolore condiviso con Nadia, madre del ragazzo che non ero riuscito a salvare, avevo trovato una ragione nuova per andare avanti.