Orfana a sei anni: due sorelle in attesa di una terza.

Sono rimasta orfana a sei anni. Eravamo già due sorelle, e la mamma stava partorendo la terza. Ricordo ancora tutto: le grida di mamma, le vicine che si radunavano e piangevano, quando la voce di mamma si affievolì…

Perché non hanno chiamato i medici, non hanno portato mamma all’ospedale? Ancora non riesco a capirlo. Perché? Era troppo lontano il paese? Le strade erano bloccate? Non lo so, ci sarà stata una ragione? Mamma morì di parto, lasciandoci sole insieme alla piccola neonata Valentina.

Dopo la morte di mamma, papà era spaesato, non avevamo parenti qui, nell’Italia meridionale, erano tutti al nord e non c’era nessuno che potesse aiutare papà con noi. Le vicine gli consigliarono urgentemente di risposarsi. Non passò nemmeno una settimana dai funerali di mamma che papà aveva già una promessa di matrimonio.

Gli suggerirono di fare la corte a una maestra, dicevano che era una donna buona. Papà accettò il consiglio e andò da lei. Le chiese la mano e ottenne il consenso. Forse a lei piaceva papà? Era giovane, di bell’aspetto – su questo non c’era dubbio. Alto, snello, con occhi neri neri, come quelli di un gitano.

In ogni caso, papà tornò la sera con la fidanzata per farcela conoscere.
– Vi ho portato una nuova mamma!

Provai una grande amarezza, sentivo con il cuore di bambina che c’era qualcosa di sbagliato. In casa c’era ancora l’odore di mamma, portavamo ancora i vestitini cuciti e lavati da lei, e già ci presentava una nuova mamma. Ora, dopo anni, lo capisco, ma allora lo odiavo, lui e la sua promessa. Non so cosa si fosse inventata quella donna su di noi, ma entrò in casa abbracciata a papà.

Erano un po’ alticci e lei ci disse:
– Se mi chiamerete mamma, rimarrò.
Dissi alla piccola:
– Non è la nostra mamma. La nostra mamma è morta. Non chiamarla così!

La sorellina scoppiò in lacrime, e io, come la maggiore, mi posi in avanti.
– No, non lo faremo! Tu non sei la nostra mamma. Sei un’estranea!
– Oh, che bella parlantina! Allora non rimarrò con voi.

La maestra uscì, e papà avrebbe voluto seguirla ma si fermò sulla soglia, esitò. Rimase lì a capo chino, poi si girò, venne verso di noi, ci abbracciò e scoppiò a piangere, e noi con lui. Anche la piccola Valentina nella culla cominciò a piagnucolare. Piangevamo per la nostra mamma, mentre papà per la sua amata moglie, ma nelle nostre lacrime c’era più dolore che nelle sue. Le lacrime di un orfano sono uguali in tutto il mondo e l’angoscia di un bambino senza madre è la stessa in tutte le lingue. Fu l’unica volta nella vita che vidi papà piangere.

Papà rimase con noi per altre due settimane; lavorava nel settore forestale, la loro squadra doveva andare nei boschi. Cosa fare? Non c’erano altri lavori nel villaggio. Papà si accordò con una vicina, le lasciò soldi per il cibo e portò la piccola Valentina da un’altra vicina e se ne andò nei boschi.

Così rimanemmo sole. La vicina veniva, cucinava, accendeva il fuoco e poi se ne andava, aveva le sue faccende. E noi rimanevamo tutto il giorno da sole: avevamo freddo, fame, paura.

Il villaggio si preoccupava di come aiutarci. Serviva una donna per salvare la famiglia. Ma non una qualsiasi, una speciale, capace di accogliere dei bambini non suoi come fossero propri. Ma dove trovarla?
Nelle chiacchiere si venne a sapere che una parente lontana di una nostra compaesana era una giovane donna, lasciata dal marito perché non poteva avere figli. Oppure aveva avuto un figlio, ma era morto e non ne aveva avuti altri, nessuno lo sapeva davvero. Riuscirono a scoprire il suo indirizzo, le scrissero una lettera e tramite quella zia, Margherita, chiamarono per noi Zina.

Papà era ancora nelle foreste quando Zina venne da noi una mattina presto. Entrò in casa così piano che non l’udimmo. Mi svegliai e c’erano passi in casa. Camminava proprio come mamma, qualcuno che apparecchiava in cucina, e per tutta la casa c’era un profumo! Frittelle!

Io e mia sorella osservammo silenziosamente. Zina preparava tutto senza far rumore: lavò i piatti, pulì i pavimenti. Alla fine, dai rumori capì che ci eravamo svegliate.

– Su, venite, piccoline, mangiamo!
Ci sorprese che ci chiamasse piccoline. Effettivamente, avevamo i capelli chiari e gli occhi azzurri come mamma.
Raccogliemmo il coraggio e uscimmo dalla stanza.
– Sedetevi a tavola!

Non dovevano chiamarcelo due volte. Mangiammo le frittelle e già sentivamo fiducia verso quella donna.
– Mi chiamo zia Zina. Chiamatemi così.

Poi zia Zina ci fece fare il bagno, lavò tutto per noi e se ne andò. Il giorno dopo l’aspettavamo: tornò! La casa si trasformò sotto le sue mani. Tornò pulita e ordinata, come quando c’era mamma. Passarono tre settimane e papà era nei boschi. Zia Zina ci accudiva, meglio non poteva essere, ma probabilmente soffriva e non ci lasciava affezionare. In particolare, la piccola Veronique si avvicinava a lei. Era comprensibile, aveva solo tre anni allora. Io ero più cauta. Zia Zina era severa. Non sorrideva molto. Mamma era allegra, cantava canzoni, amava ballare, chiamava papà “Gianni”.

– Quando tornerà papà dai boschi, potrebbe non accettarmi. Com’è vostro padre?
In modo maldestro iniziai a lodare papà, rischiando lì per lì di rovinare tutto! Dissi:
– È una brava persona! Molto tranquillo! Si addormenta appena ha bevuto!
Zia Zina si insospettì subito:
– Beve molto spesso?
– Spesso! – rispose la sorellina, e io con un calcio sotto il tavolo tentai di correggere:
– No, solo nelle feste.

Zia Zina se ne andò quella sera sollevata, e papà arrivò la sera dai boschi. Entrò in casa, osservò, si meravigliò:
– Pensavo foste nei guai, ma vivete come principesse.
Gli raccontammo tutto come potevamo. Papà si sedette, pensò e poi disse:
– Beh, vado a vedere la nuova padrona di casa. Com’è?
– Bellissima, – disse in fretta la piccola Veronica, – e cuoce frittelle e racconta storie.

Oggi, ricordando tutto ciò, sorrido sempre. Zina non era affatto bella secondo nessun criterio. Magra, minuta, un po’ sbiadita, non era certo una bellezza, ma cosa ne capiscono i bambini? O forse solo loro capiscono dov’è la bellezza di una persona?

Papà rise, si vestì e andò da zia Margherita, che abitava lì vicino.
Il giorno dopo papà portò Zina da noi personalmente. Si svegliò presto, andò a prenderla e Zina entrò in casa timidamente, come se avesse paura di qualcosa.

Dissi a Veronica:
– Chiamiamola mamma, è buona!
E io e Veronica all’unisono gridammo:
– Mamma, è arrivata la mamma!

Papà e Zina andarono a prendere la piccola Valentina. Lei fu davvero una madre per Valentina. Se non c’erano preoccupazioni per lei. Olya non ricordava la madre. Veronica dimenticò, ma io la ricordavo tutta la vita, e anche papà la ricordava. Una volta sentii papà mormorare guardando una foto di mamma:

– Perché sei andata via così presto? Andandotene hai portato via ogni mia gioia.

Vissi poco con papà e matrigna. Dal quarto anno ero in collegio, nel nostro villaggio non c’era una scuola superiore. Dopo il settimo anno mi iscrissi a un istituto tecnico. Ho sempre cercato di andarmene presto di casa, e perché? Zinaida non mi fece mai male in nessun modo, mi proteggeva come fossi sua, ma io sempre la evitai. Sono ingrata?

Forse non è stato un caso che scelsi la professione di ostetrica. Non posso tornare indietro nel tempo per salvare mia mamma, ma posso salvare qualcun’altra…

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