Padre abbandona la famiglia per un’altra donna quando la figlia aveva solo quattro anni.

Molti anni fa, nella fredda Lombardia, un padre abbandonò la sua famiglia per unaltra donna quando la figlia aveva appena quattro anni. Era appena passato il Capodanno quando, sulla soglia di casa, mormorò “mi dispiace” alla piccola e chiuse la porta alle sue spalle. La madre accettò tutto con strana calma, come se fosse un destino inevitabile. Nella sua famiglia, nessuna donna aveva mai conosciuto un amore duraturo. Ma poche settimane dopo, una notte, ingoiò tutte le pastiglie di diazepam e paracetamolo che trovò in casa e si addormentò per sempre.

Quella mattina, la piccola Ginevra cercò a lungo di svegliare la madre, gridando e scuotendola. Poi, affamata, frugò nel frigorifero per un pasto frettoloso e tornò a provare. Stanchissima, alla fine si addormentò abbracciata a lei.

I giorni di gennaio volarono, e il sole già calava quando la bambina riaprì gli occhi. Il gelo la svegliò; tirò a sé la coperta e si strinse ancora di più al corpo della madre, ma questo non fece che aumentare il freddo dentro di lei. Fu allora che Ginevra capì: quel gelo insostenibile veniva dalla mamma. Lacrime brucianti le rigarono il viso.

Allingresso, la porta si aprì. Ginevra corse come un turbine: era zia Beatrice, la sorella minore della madre.
“Ginevra, sei qui! Dovè tua madre? Ho chiamato tutto il giorno, perché non risponde? Sono preoccupata!”

La bambina afferrò il cappotto di Beatrice e la trascinò con forza. Indicò la camera da letto con un dito tremante, gli occhi gonfi di pianto, la bocca aperta in un urlo muto. Nessun suono uscì.

Beatrice non aveva mai avuto figli, e per questo il marito laveva lasciata dopo cinque anni di matrimonio. Senza una famiglia sua, riversò tutto il suo amore su Ginevra, come una seconda madre. Naturalmente, quando accadde la tragedia, si occupò di ogni documento per diventarne tutrice. Per tre anni, circondò la nipote di cure, ma nessuna terapia riportò la voce alla bambina.

Quellinverno, il freddo arrivò con la festa di SantAntonio, portando una neve cruda e scricchiolante. Ginevra e le amiche passarono il giorno a slittare nel Parco Sempione, costruirono unintera famiglia di pupazzi di neve, rotolarono e fecero “angeli” sulla coltre bianca.

“È ora di tornare. I tuoi vestiti sono ghiacciati, e i guanti sono blocchi di neve! Andiamo, passiamo al supermercato per il latte e la pasta,” disse Beatrice in fretta.

Mentre la gente entrava e usciva dal negozio, un gatto rosso se ne stava seduto accanto allingresso, con aria sapiente, gli occhi socchiusi come se non avesse bisogno di nulla. Solo le zampe tremavano per il freddo. Ginevra si accovacciò accanto a lui e fece cenno alla zia di andare avanti.

“Va bene, faccio presto. Ma non muoverti di qui!”

La bambina accarezzò il gatto, che si stirò felice, inarcando la schiena e facendo le fusa. Ginevra lo abbracciò, poggiando la guancia sul suo pelo. Allimprovviso, lacrime calde le rigarono il viso, e il gatto iniziò a leccarle via, starnutendo e poi ricominciando.

“Che schifo! Non farlo, è un gatto di strada, sporco!”

Beatrice afferrò la mano di Ginevra e la trascinò verso lauto. La bambina si divincolò, ma la zia la spinse sul sedile posteriore e salì al volante.

Il gatto seguì, miagolando verso Ginevra.

“Non possiamo lasciarlo è mio ora, e lo sto abbandonando,” sussurrò la bambina, le lacrime che scorrevano sul vetro.

“Hai parlato? Ripeti, ripeti ancora!” chiese Beatrice, la voce tremante.

“Non possiamo andarcene! Senza di me morirà!” gridò Ginevra, fissandola.

La donna saltò giù, afferrò il gatto e si sedette accanto alla nipote. Il rosso, spaventato, afferrò il cappotto con le unghie, ma quando vide Ginevra, le saltò in grembo e si raggomitolò.

“Lo volevi, eh? Bastava dirmelo, ti avrei trovato un gatto molto tempo fa,” sorrise Beatrice, felice.

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