Padre Senza Legami di Sangue

**IL PADRE NON BIOLOGICO**

Fin da piccola, Carlotta sapeva che sua madre l’aveva “portata sotto il grembiule”. Le gentili vicine di casa, che sembravano vivere sulla panchina sotto il portone, glielo avevano spiegato.

Carlotta immaginava la sua mamma, la fragile e minuta Livia, che camminava con un grembiule da festa pieno di una bambina apparsa chissà da dove: lei.

“È perché non hai un papà!” le aveva spiegato con aria importante Lucrezia, che viveva nell’appartamento sopra al loro. “Tu sei una senza padre!”

“Che vuol dire?” chiese Carlotta.

“Eh, cioè! Tua mamma ti ha avuta così, per caso! Tu non hai un papà! Io invece ce l’ho!” e Lucrezia guardò l’amica con fierezza.

“E allora? Io ho la nonna e il nonno! Tu no.”

“Ah! I nonni non contano! Una donna deve avere un uomo! Senza un uomo, non è completa! Così dice la mia mamma!”

Quella sera, dopo cena, Carlotta si sedette come sempre accanto alla mamma sul divano. Era la loro abitudine: passare le serate a chiacchierare e dedicarsi ai loro passatempi. Livia era un’artigiana: cuciva, ricamava, creava. Carlotta, osservandola, si era appassionata anche lei: faceva braccialetti di perline, mosaici di brillantini o modellava animaletti di plastilina.

“Mamma, ma è davvero necessario avere un papà?” chiese Carlotta, ascoltando ciò che accadeva nell’appartamento sopra di loro. Iniziava il solito “concerto serale”, come lo chiamava la nonna di Carlotta, Paolina. Lo organizzava il padre di Lucrezia, zio Sandro. Dal rumore, si capiva subito in che stato fosse. Se urlava solo lui e le donne della casa si lamentavano a bassa voce, voleva dire che aveva bevuto. Se invece le urla erano reciproche, era sobrio, e questo lo rendeva ancora più furioso.

“Be’, se noi viviamo bene senza un papà, allora non è indispensabile,” sorrise Livia, accarezzando la figlia e ascoltando anche lei il caos dal piano di sopra.

“Ma Lucrezia dice che una donna senza uomo non è completa…”

“Tesoro, ognuno ha il suo modo di sentirsi importante. Noi due viviamo male, secondo te?”

“No,” scosse la testa Carlotta. Vivevano davvero bene. Livia lavorava come contabile in un’azienda importante e guadagnava bene. Ogni weekend andavano da qualche parte: al bar, al cinema, a teatro, al parco o a fare shopping. Ogni estate andavano al mare, e ogni Capodanno in campagna, dove viveva l’amica di Livia, zia Giulia. Zia Giulia aveva tre figli, e ogni inverno il loro papà, marito di zia Giulia, costruiva una grande slitta nel cortile, dove i bambini scivolavano felici.

Il “concerto” di sopra si faceva più intenso. Le parolacce di zio Sandro si sentivano ormai in tutto il palazzo. Dopo mezz’ora, Livia sorrise a Carlotta e andò nell’ingresso. Lo spettacolo stava per concludersi. Una porta sbatteva di sopra, seguita da passi affrettati. Livia aprì la porta e subito zia Caterina e Lucrezia piombarono dentro.

“Chiudi in fretta!” gridò Caterina a Livia, ma lei sapeva già cosa fare. Qualcuno martellò la porta.

“Livia! Apri!” urlò una voce ubriaca. “Apri o te la sfondo! Dov’è quella *****? Gli rompo tutte le ossa!”

“Se non te ne vai subito, chiamo la polizia,” rispose Livia calma. Era abituata a queste minacce. E il vicino sapeva che non erano vuote: Livia aveva già chiamato i carabinieri diverse volte. Aveva un ultimo avvertimento. Un altro passo falso, e sarebbe finito in galera.

“No, Livia!” singhiozzò Caterina. “Lo metteranno in prigione!”

“Era ora,” disse Livia, andando in cucina a preparare il tè.

“Ma cosa dici? Come farò senza un uomo?” si lamentò Caterina. “A te piace forse essere sola?”

Livia si fermò e la guardò. Il grembiule sporco era strappato, i capelli arruffati, gli occhi lucidi di paura. Sotto uno di essi, un livido si formava.

“Non sono sola, Caterina. Ho una figlia. E nessun livido. E non dormo a casa degli altri.”

“Che orgoglio!” sbuffò Caterina. “Tua figlia cresce senza padre. Chissà come finirà senza un’educazione maschile! E i lividi… Se picchia, è perché ama! E poi, chi si ama, si scambia i dispetti! Oggi litighiamo, domani mi amerà ancora di più! Tu invece dormirai sola in un letto freddo!”

Livia scosse la testa. La stessa solfa. Le stesse scuse.

Carlotta iniziò la prima elementare quando nella loro vita arrivò zio Marcello. Non era alto, ma robusto. Parlava poco, era calmo e serio. All’inizio, Carlotta temeva che la mamma si dimenticasse di lei—Lucrezia, che sapeva sempre tutto, l’aveva “illuminata”.

“Ah! E chi ti dice che questo zio Marcello sarà tuo padre? Tu non sei sua figlia! Agli uomini non piacciono i figli degli altri! Adesso farà un bambino a tua mamma e basta! O ti trasformerà in una serva, o ti manderanno in orfanotrofio! Solo un padre vero ama, un non-biologico è sempre un estraneo.”

“Lucrezia!” urlò in quel momento zio Sandro dal balcone. “Dove sei, mocciosa? Vieni subito a casa! I piatti sono sporchi, la casa è un porcile! Vuoi che tua madre li lavi quando torna?”

Zio Sandro aveva perso il lavoro un mese prima e non ne trovava un altro, affogando la disperazione nell’alcool. Lucrezia sparì veloce nel portone.

Ma zio Marcello, contrariamente alle previsioni di Lucrezia, si dimostrò più che buono con Carlotta. Lavorava come ingegnere nella stessa azienda di Livia. Aveva una macchina grande e bella, che ora li portava nei weekend al bar, al cinema, a teatro, al parco o a fare shopping. Con quella macchina andavano anche al mare e in campagna da zia Giulia per Capodanno.

Zio Marcello giocava con Carlotta, le comprava giocattoli e vestiti belli, la difendeva se i bulli del quartiere la infastidivano, e la sera si sedeva con loro sul divano a guardare le sue “ragazze” mentre creavano.

Quando Livia e Marcello si sposarono, con una piccola festa in un ristorantino locale, lui si avvicinò a Carlotta e le disse sorridendo:

“Puoi chiamarmi papà,” cosa che Carlotta iniziò a fare con gioia. Ma quando zia Caterina lo sentì, scoppiò a ridere.

“Che papà? È il tuo patrigno! Tua madre ha un marito legale, ma tu non hai un padre! Lui è solo il tuo patrigno!”

Caterina odiava Marcello. Da quando si era trasferito da Livia e Carlotta, le notti a casa loro erano finite.

“Caterina, hai un appartamento tuo—dormi lì! O vai in hotel, se non vuoi tornare a casa! Qui non è un rifugio!” disse Marcello con calma quando Caterina bussò alla loro porta per sfuggire al marito ubriaco.

“Ma chi ti credi di essere?” urlò Caterina nel palazzo. “Eccolo, il capo! Chiamo mio marito! Lui ti sistemerà!”

“Perché?” Marcello incrociò le braccia. “Ecco che arriva il tuo amato. Parliamo.”

Sandro,

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