**Diario di Enrico**
Enrico Bianchi aveva perso la moglie solo sei mesi prima. Con lei se n’era andato anche l’ultimo appiglio alla vita. Continuava ad andare al lavoro non per necessità, ma per trovare un briciolo di senso nelle sue giornate. Il lavoro era la sua salvezza, l’unica ancora. Nella routine trovava un conforto, anche se fragile. La sera, spesso, vagava per le strade di Roma, rimandando il ritorno a quell’appartamento vuoto e freddo. Senza di lei, la casa era diventata una scatola di silenzio, dove l’eco dei suoi passi risuonava più forte del vuoto.
I figli — Laura e Matteo — lo vedevano sempre meno. Poi quasi mai. Con la morte della madre, sembrava che anche quel filo che li teneva uniti si fosse spezzato. Enrico temeva la solitudine, ma ancor di più l’idea di essere ormai un vecchio inutile per i suoi stessi figli.
A volte si sorprendeva a cercare volti familiari tra la folla. Si fermava, sperando che qualcuno lo riconoscesse, lo abbracciasse. Ma la gente passava oltre. E il cuore gli doleva sempre più — non per malattia, ma per la mancanza di tutto.
Poi arrivò lei, Laura, sua figlia. Non con affetto, ma con calcolo negli occhi. Le sue visite erano brevi, fredde, e finivano sempre con la stessa richiesta: l’appartamento. Questa volta non perse tempo.
“Papà, ma è assurdo! Vivi da solo in un trilocale nel centro. Vendi, comprati un monolocale. I soldi servono a me — ho un mutuo, i bambini hanno bisogno di spazio.”
Lui tacque. Le mani tremavano. Le parole gli si strozzavano in gola.
“Laura, sai che questa è la casa tua e della mamma. Non posso semplicemente—”
Si alzò di scatto.
“Hai già vissuto la tua vita, papà. Pensa a noi, almeno una volta,” disse, la voce tesa di rabbia.
“E tu, quando tornerai a trovarmi?” chiese lui, quasi sussurrando.
Era già alla porta. Si voltò e lanciò:
“Dopo che te ne sarai andato.”
La porta sbatté. Il rumore rimbombò nell’appartamento come un colpo di pistola. Enrico rimase immobile a lungo. Poi, raccogliendo le forze, chiamò Matteo.
“Matteo, parlami. È venuta Laura… ancora per l’appartamento… Non voglio venderlo.” La voce gli tremava.
Dall’altra parte, un sospiro.
“Papà, ma cosa vuoi? Sei solo, è troppo grande. Anche a me, sinceramente, farebbe comodo un aiuto. La mia macchina è vecchia, vorrei cambiarla. Vendi, non essere tirchio.”
“E tu quando verrai?” chiese, speranzoso.
“Se vendi l’appartamento, verrò.”
Non ascoltò il resto. Riagganciò. Prese il cappotto e uscì. Un peso enorme gli schiacciava il petto. L’aria sembrava densa, difficile da respirare. Camminò senza meta, finché non trovò una panchina vuota vicino alla fontana. Si sedette. Chinò la testa. Il cuore batteva lento, con fatica. Poi… semplicemente si fermò.
Enrico morì da solo. Tra gli alberi, sotto un cielo grigio, con il telefono in tasca. Nessuno lo aspettava. Nessuno lo cercava. Nessuno lo amava. Il suo cuore non ha ceduto per il tradimento, ma per l’indifferenza. Non contava più nulla, né come uomo, né come padre. Solo come proprietario di un trilocale.
Due giorni dopo, la porta dell’appartamento si aprì di nuovo. Laura era lì, con le chiavi in mano. Gli occhi pieni non di lacrime, ma di progetti. E Matteo, con la macchina nuova parcheggiata sotto casa. Nell’aria, odore di polvere e solitudine. Sul tavolo, una vecchia fotografia.
Tutti insieme. Con la mamma. Con il papà. Felici.
Ma la felicità, come l’amore, se ne va. Quando la misuri in metri quadri e conti in banca.