30 settembre
Oggi è stata una giornata che mi ha spezzato il cuore.
Luigi Bianchi aveva perso la moglie solo sei mesi prima. Con lei se n’era andato ogni conforto, ogni ragione per tornare a casa. Continuava a lavorare, non per bisogno, ma per trovare un barlume di normalità. Il lavoro era il suo rifugio, l’unica cosa che lo teneva in piedi. Le sere erano sempre più lunghe; vagava per le strade di Roma, rimandando il momento di rientrare in quell’appartamento vuoto, freddo. Senza di lei, quelle quattro mura erano diventate una prigione di silenzio.
I figli—Sofia e Marco—lo visitavano sempre meno. Poi, quasi mai. Forse, con la morte della madre, era svanito anche quel filo che li teneva uniti. Luigi temeva la solitudine, ma ancor più l’idea di essere ormai solo un peso per loro.
A volte, fissava i volti dei passanti, sperando di riconoscere qualcuno, un sorriso, un abbraccio. Ma nessuno si fermava. E il dolore nel petto cresceva—non per malattia, ma per quel vuoto che sembrava inghiottirlo.
Poi arrivò lei. Sofia. Non per chiedere come stava, non per dargli conforto. Venne con un’aria fredda, pratica. Le sue visite erano brevi, formali, e sempre più spesso parlavano solo di una cosa: la casa.
“Papà, è assurdo. Vivi da solo in un trilocale nel centro di Milano. Vendi, prendi un monolocale. Con la differenza, potresti aiutarmi—abbiamo un mutuo, i bambini hanno bisogno di più spazio.”
Lui tacque. Le mani gli tremavano. Le parole gli si incollarono in gola.
“Sofia, sai che questa è la casa tua e di tua madre. Non posso semplicemente—”
Lei si alzò di scatto.
“Hai già vissuto la tua vita, papà. Pensa a noi, per una volta.” La voce era tagliente, carica di fastidio.
“E tu penserai a me, la prossima volta che verrai?” chiese lui, quasi un sussurro.
Lei era già sulla porta. Si girò e lasciò cadere:
“Dopo che te ne sarai andato.”
La porta sbatté. Il rumore rimbalzò nelle stanze vuote come un colpo di pistola. Luigi rimase immobile a lungo, poi, raccogliendo quel che restava del suo coraggio, chiamò Marco.
“Marco, parliamoci. Tua sorella è venuta… ancora per la casa… Io non voglio venderla…” La voce gli si spezzava.
Dall’altra parte, un sospiro.
“Papà, che vuoi che ti dica? Sei solo, l’appartamento è grande. Sinceramente, anche a me farebbe comodo una mano. La mia auto è vecchia, volevo cambiarla. Vendi, non fare l’avaro.”
“E tu quando vieni a trovarmi?” chiese, con un filo di speranza.
“Se vendi la casa, vengo.”
Non finì la chiamata. Appese. Prese il cappotto e uscì. Il peso nel petto era insopportabile. Camminò senza meta, finché non trovò una panchina vuota vicino al Naviglio. Si sedette. Chinò la testa. Il cuore batteva lento, affaticato. Poi… si fermò.
Luigi Bianchi morì solo. Tra gli alberi, sotto un cielo grigio, con il telefono in tasca. Nessuno lo stava aspettando. Nessuno lo cercava. Nessuno lo amava. Il suo cuore non aveva ceduto per il tradimento—ma per l’indifferenza. Non era più un padre, né un uomo. Solo un proprietario.
Il giorno dopo, la porta di casa sbatté di nuovo. Sofia arrivò con le chiavi. Occhi asciutti, pieni di progetti. Marco parcheggiò la sua auto nuova sotto casa. L’appartamento odorava di polvere e solitudine. Sul tavolo, una vecchia foto. Tutti insieme. Con la mamma. Con il papà. Felici.
Ma la felicità, come l’amore, se ne va. Soprattutto quando la misuri in metri quadri e in euro.
La lezione? I figli a volte dimenticano da dove vengono. E i genitori non sempre capiscono quando è il momento di lasciar andare. Forse l’amore vero è l’unica eredità che dovrebbe contare.