«Papà, dammi l’appartamento, hai già vissuto la tua vita». Dopo la sua risposta, la figlia pronunciò tre parole e sbatté la porta.
Alessandro Rossi aveva perso la moglie solo sei mesi prima. Con lei se n’era andato anche l’ultimo sostegno della sua vita. Continuava ad andare al lavoro, non per necessità ma per mantenere un senso, anche piccolo, alla sua esistenza. Il lavoro era la sua salvezza, il suo punto fermo. Nella solita routine trovava conforto, anche se temporaneo. La sera, spesso si attardava per le strade, camminando senza meta, senza voglia di tornare in un appartamento vuoto e freddo. Senza di lei, la casa era diventata una scatola silenziosa, dove l’eco dei suoi passi era più spaventoso del silenzio stesso.
I figli – la figlia e il figlio – lo visitavano di rado. Sempre meno. E poi quasi mai. Sembrava che con la morte della madre fosse svanito anche quel filo che teneva unita la famiglia. Alessandro aveva paura della solitudine, ma ancora di più di essere diventato, per i suoi figli, solo un vecchio inutile.
Spesso si sorprendeva a osservare i passanti, cercando volti conosciuti. Studiava gli sguardi, sperando che qualcuno si fermasse, lo salutasse, lo abbracciasse. Ma la gente passava oltre. E il cuore gli doleva sempre più – non per una malattia, ma per il vuoto.
Poi arrivò lei – Giulia, sua figlia. Non era venuta per preoccuparsi o per conforto, ma con il calcolo negli occhi. Le sue visite erano sempre brevi, distaccate, e ogni volta si riducevano alla stessa discussione – l’appartamento. Questa volta non perse tempo.
«Papà, dai, quanto ancora? Vivi in un trilocale, da solo! È assurdo. Vendilo, comprati un monolocale. Dammi i soldi della vendita – abbiamo un mutuo, i bambini hanno bisogno di una stanza».
Lui rimase in silenzio. Le mani gli tremavano. Le parole gli si erano bloccate in gola.
«Giulia, sai che questa è la casa mia e di tua madre. Non posso semplicemente…» non finì la frase.
La figlia si alzò di scatto.
«Hai già avuto la tua vita, papà. Pensa a noi, almeno una volta», la sua voce tremava d’irritazione.
«E tu, pensi a quando tornerai?» chiese lui piano, quasi sussurrando.
Era già alla porta. Si girò e disse:
«Dopo che non ci sarai più».
La porta sbatté. Il rumore risuonò nell’appartamento come uno sparo. Alessandro rimase seduto, immobile, incapace di muoversi. Poi, raccogliendo le forze, chiamò il figlio.
«Luca, parla con me. È venuta Giulia… ancora per l’appartamento… Non voglio venderlo», la sua voce tremava.
Dall’altro capo, un sospiro.
«Papà, e che vuoi fare? Sei solo, è un appartamento enorme. Sinceramente, anch’io non rifiuterei un aiuto. Ho una macchina vecchia, vorrei cambiarne una. Vendila, non fare l’avaro».
«E quando verrai?» chiese con speranza.
«Se vendi l’appartamento, verrò».
Non ascoltò il resto. Riagganciò. Prese il cappotto e uscì di casa. Un peso gli opprimeva il petto. L’aria sembrava densa, appiccicosa. Camminò senza guardare, finché non trovò una panchina vuota vicino al laghetto. Si sedette. Abbassò la testa. Il cuore batteva lentamente, con fatica. Poi… si fermò.
Alessandro Rossi morì da solo. Tra gli alberi, sotto un cielo grigio, con il telefono in tasca. Nessuno lo aspettava. Nessuno lo cercava. Nessuno lo amava. Il suo cuore non aveva retto al tradimento – l’indifferenza. Non serviva a nessuno come uomo, come padre. Solo come proprietario di una casa.
Il giorno dopo, la porta dell’appartamento sbatté di nuovo. Arrivò Giulia – con le chiavi in mano. Gli occhi pieni non di lacrime, ma di calcolo. E Luca – con l’auto nuova in parcheggio. In casa c’era odore di polvere e solitudine. E sul tavolo, una vecchia fotografia. Dove erano tutti insieme. Con la mamma. Con il papà. Felici. Ancora allora.
Ma la felicità, come l’amore, se ne va. Se la misuri in metri quadri…