Lidia camminava nel piccolo paese nativo. O meglio, il suo vero paese da ormai più di quarant’anni era un altro, completamente diverso. Quella città era immensa e caotica. La vita lì brulicava giorno e notte e le luci della pubblicità brillavano incessantemente. Migliaia di turisti scattavano altrettante fotografie, milioni di abitanti correvano occupati senza alzare lo sguardo né notare la bellezza e la storia che li circondava. Quando Lidia vi si trasferì per la prima volta, rimase sorpresa di come si potesse passare davanti a un luogo come il Duomo di Milano senza fermarsi nemmeno per un attimo a contemplarne la bellezza. Poi anche lei cominciò a correre per le strade senza alzare lo sguardo. E a quel punto, quando avrebbe potuto? Bambini, marito, lavoro. Impegni e preoccupazioni. Si era integrata nella grande città, era diventata cittadina a tutti gli effetti. Era felice di essersi tolta dal piccolo noioso paesino quasi rurale. La vita in un paesino scorreva lenta e monotona. In quel villaggio potevi nascere e morire, ma non vivere. Così lei, in quel posto, non ci visse. Alla grande città regalò due nuovi cittadini. Due bravi ragazzi. “Oh, i miei nipotini sono arrivati” esclamava la nonna battendo le mani e allargava le braccia per abbracciare i suoi adorati nipoti. I piccoli si stringevano alla nonna rotonda e morbida, che profumava di dolci, e sul volto della madre di Lidia compariva un’espressione di incredibile felicità. Attorno alla nonna con i nipoti correvano un vecchio cane e un gatto, mentre dietro casa il gallo annunciava che era tempo di raccogliere le uova. La mamma di Lidia non voleva lasciar andare i nipoti, gustando quella vicinanza tanto attesa. Come se, lasciandoli, potessero sparire. Solo diventando nonna, Lidia capì che i nipoti sono cento volte più dolci dei figli. I figli vanno sgridati a volte, ma i nipoti sono una continua festa. Con i nipoti si possono dimenticare le ginocchia doloranti e, anche solo per un minuto, tornare a essere la piccola Lidia che ha tutta la vita davanti. Ma la vita era volata via in fretta e gran parte di essa era ormai passata. Aveva cresciuto i figli. Aveva divorziato in silenzio e senza drammi. Era andata in pensione. Sei mesi fa aveva seppellito la madre. Aveva scritto “in vendita” e il suo numero sul cancello della casa natia. E ora avevano trovato dei compratori. Era tornata per discutere dell’affare. Speriamo, l’ultima volta che tornava lì. Non c’era più nulla che la legava. La tomba della mamma c’era, e che la mamma perdoni: i parenti avrebbero vegliato sulla tomba. Nei piccoli paesi non si dimenticano le tombe. Camminava per la strada ed inaspettatamente si meravigliava del cielo, dell’erba, delle casette. Non aveva mai notato quanto era bello quel paesino. Le casette curate, tanto verde. Ed ecco i cancelli verdi conosciuti fin dall’infanzia. Il cancello un po’ inclinato con la cassetta postale intagliata. Lo aprì e si immersa nei ricordi dell’infanzia. Il giardino trascurato con i vecchi meli e peri la accolse come se non se ne fosse mai andata. Entrò in casa. Profumava di mamma. Strano. Era vuota da sei mesi, e sembrava che la mamma fosse al mercato da mezz’ora. Passò nel salone. Il comò coperto da un centrino lavorato a mano con foto in cornici. In tutte, lei, i figli, i nipoti e i pronipoti. La tovaglia con grandi rose rosa sul tavolo. Una grande libreria. I ricordi la sopraffecero. Ricordò quando, da bambina, stringeva i pulcini nel pollaio dietro casa. Ricordò come sarchiava le patate brontolando che non avrebbe vissuto lì neanche un giorno quando sarebbe cresciuta. Ricordò come Michele si arrampicava dalla finestra nella sua stanza per darle il bacio della buonanotte. Eh, Michele, non l’aveva aspettato di ritorno dall’esercito, se n’era andata per conquistare la grande città. Ci aveva pensato molte volte, ma si era proibita di rimpiangere ciò che aveva fatto. Aprì il cassetto superiore del comò. Un pettine, i pettinini della mamma, la collana di ambra rossa. La indossò. Si guardò allo specchio. Bella! Non di moda, no. Probabilmente, in una trasmissione di moda verrebbe criticata. Ma a lei piaceva. Come se la mamma le avesse accarezzato il collo. Sentì delle voci al cancello. “Ehi? C’è qualcuno?” gridò una voce infantile. Andò verso il cancello. Tre bambini di circa cinque o sei anni. Uno teneva in braccio un cucciolo. “Buongiorno signora! Ma lei che ci fa qui? Non ci abita nessuno. Sarà mica una ladra?” chiese il più coraggioso, un ragazzino biondino con il cucciolo in mano. “No. Non sono una ladra. Sono la figlia di Anna Petronilla, che viveva qui. Sono venuta a vendere la casa” rispose Lidia. “È un errore! Mio nonno Michele ha detto che una casa come questa non sarà mai distrutta” replicò il biondino. “E quello chi è? Come si chiama?” chiese Lidia indicando il cucciolo. “È un cane. Le stiamo cercando una casa. L’ho preso io, ma il nonno non vuole. Dice che quando vado via dai miei, tocca a lui badare. E lui già ha un cane. Vive da solo. Abbiamo seppellito la nonna l’anno scorso, quindi il secondo cane è troppo. E questo dove lo mettiamo? L’abbiamo trovato vicino alla cava e gli abbiamo dato da mangiare. Stiamo cercando di sistemarlo. Forse le serve un cane?” disse il biondino spingendo il cucciolo tra le braccia di Lidia. Il cucciolo era sporco, morbido e profumava di cucciolo. Oh! Quanto è buono l’odore dei cuccioli. Profumano di erba, latte materno e felicità. Perché felicità? Può essere infelice chi tiene tra le braccia un cucciolo? Lidia aveva dimenticato quell’odore da tempo. Suo marito era allergico, e poi gli animali non gli piacevano, e in seguito era stata troppo occupata per pensare ai cuccioli. Il cucciolo fece un buffo grugnito e leccò Lidia sul viso. “Artemio! Lascia in pace la signora. Hai già stancato tutti con questo cane” si sentì una voce a sinistra. Un uomo anziano si avvicinò. “Lidia! Ma guarda! Sei venuta! Vuoi vendere la casa di tua madre! Mi hai riconosciuto? Non sei affatto cambiata, Lidia. Questo è mio nipote, Artemio. Artemio, lascia in pace la signora, non le serve un cucciolo, non ci vivrà. Lei è una nostra milanese” disse colui che Lidia riconobbe immediatamente come il suo primo amore, che non aveva aspettato di ritorno dall’esercito a causa di un ragazzo di passaggio. Lidia si girò e guardò la casa, poi guardò Michele, lanciò uno sguardo al cucciolo e inaspettatamente disse: “Ciao Michele. No, non venderò la casa. È un peccato, una casa come questa, costruita per l’eternità, e prenderò il cucciolo. Vivrò qui!”. “Ma è fantastico, Lidia. E io ti aiuterò. Lì il tetto potrebbe perdere o altro, ricordi ancora dove abito. Vieni a prendere un tè. O, se preferisci, vengo io da te. Vuoi che torni di nuovo dalla finestra?” disse Michele sorridendo. Lidia sorrise di rimando e si nascose nel muso del cucciolo per non far vedere che era arrossita. Chi l’avrebbe mai detto, vecchietta, e arrossisci come una ragazzina, che vergogna. Michele e i bambini se ne andarono. Lidia mise il cucciolo a terra e gli disse: “Andiamo a cancellare la scritta ‘in vendita’ dal cancello, perché questa casa non è in vendita. Questa è la mia casa e la tua casa. Abbiamo così tanto da fare. Presto ci saranno le vacanze, i nipoti arriveranno. Bisogna prepararsi. E ammettilo, Michele è proprio uguale. Stessi occhi, stesso sorriso”. Il cucciolo abbaiò felice. Lidia capì che era a casa.
Passeggiata nel piccolo borgo natio.
