Pentimento Tardivo

Il pentimento tardivo

Angelica non aveva mai sognato un secondo figlio. Con Massimo avevano già un figlio di sette anni, e tornare alle notti insonni, ai pannolini, ai pianti non le attraeva affatto. Inoltre, la sua carriera stava finalmente decollando. Era appena uscita dall’ombra del congedo di maternità, ed ecco che una nuova gravidanza. Massimo, invece, aveva sempre desiderato una figlia, e ora che era successo, sembrava troppo tardi per tornare indietro.

La bambina nacque incredibilmente bella: un visino delicato, un nasino minuscolo, labbra rosee e, soprattutto, occhi azzurri profondi come i fiordalisi d’estate. Guardandoli, veniva voglia di sorridere, ma presto tutto cambiò: i medici annunciarono che la piccola aveva un difetto cardiaco congenito. Sarebbero servite cure lunghe, forse un’operazione complicata, controlli costanti. La loro vita si sarebbe capovolta.

Ad Angela, quelle parole sembrarono sgretolare il suo mondo. Dove sarebbero finiti i festeggiamenti in azienda, i viaggi all’estero, le palestre esclusive, le serate fino all’alba e le vacanze al mare con le amiche? Non voleva rinunciare a tutto questo. Non a ventotto anni. Massimo ascoltò e… con sorpresa, accettò troppo rapidamente le sue ragioni. Decisero di rinunciare alla bambina. Raccontarono a parenti e conoscenti che era morta durante il parto.

Maria Giovanna lavorava come assistente in un orfanotrofio da venticinque anni. Avrebbe dovuto abituarsi, ma ogni bimbo abbandonato le spezzava il cuore come fosse la prima volta. Soprattutto quella piccola dagli occhi azzurri, lo sguardo limpido e l’anima indifesa.

La bambina si affezionò subito a Maria: la cercava, rideva felice, le accarezzava il viso con le sue manine minuscole. Maria cominciò a pensare: *I miei figli sono grandi, vivono lontano. Io e Enzo siamo soli. Abbiamo ancora salute, un orto, una mucca, le galline. L’aria pulita della campagna. Perché no?*

Ne parlò al marito. Lui andò all’orfanotrofio in silenzio, osservò la bambina e, battendo le palpebre più volte, disse:

— Decidi tu, Maria. Se puoi occuparti delle cure, sono d’accordo. Per i soldi, troveremo un modo.

— Ci riuscirò, Enzo, ci riuscirò! — gli strinse la mano.

— La chiameremo Speranza. Perché nella sua vita ci sia la forza di lottare. Il destino stesso ce lo suggerisce — disse Enzo prima di uscire.

Così la bambina trovò una vera famiglia. La vita fu dura: ospedali, esami, riabilitazione, sanatori. Maria passava le notti accanto al suo lettino, di giorno studiava libri di medicina, chiedeva consigli ai dottori. Enzo lavorava senza sosta, dimagrì, si incanutì, ma bastava che Speranza gli si avvicinasse abbracciandolo, ed ecco che rifioriva come un giardino in primavera.

Speranza crebbe dolce e luminosa. Parlava con tutti, dagli anziani ai più piccoli. Un giorno, a cinque anni, portò due pannocchie alla signora Teresa, camminando orgogliosa davanti a lei:

— Ora sta meglio, vero?

— Certo, piccola mia, sei un vero raggio di sole — rispose la vecchietta sorridendo.

Quando arrivò il momento dell’operazione, tutto il paese pregò. Andò tutto bene. La bambina sopravvisse. Il suo cuore, e la sua anima, furono salvati.

Passarono gli anni. Speranza si diplomò con lode, si iscrisse alla facoltà di medicina. Una giornata di aprile, mentre passeggiava in un parco in fiore, con gli uccelli che cantavano e la terra che si risvegliava, sognava i festeggiamenti del Primo Maggio a casa, ad aiutare la mamma nell’orto e a bere la sua tisana preferita in veranda.

Improvvisamente, qualcosa di morbido le urtò la gamba: un coniglietto di peluche. Su una panchina, un bimbo e una donna elegante lo osservavano.

— Perché l’hai buttato? — chiese Speranza.

— Perché è malato e morirà! — urlò il bambino con rabbia.

Speranza trasalì. La donna sospirò:

— Scusate… Ha un difetto al cuore. I genitori non lo vogliono, così sta con me. È mio nipote…

Speranza guardò la donna. Bella, curata, ma gli occhi… vuoti, spenti. Per consolarla, le raccontò la sua storia: come era nata anche lei con un cuore fragile, come era stata adottata, come i suoi genitori l’avevano salvata.

Mentre parlava, la donna impallidì. Era Angela.

La fissò, incapace di distogliere lo sguardo. Davanti a lei c’era sua figlia. Quella stessa. Occhi di fiordaliso, i lineamenti di Massimo. Il cuore le martellò nel petto, il respiro si fece affannoso.

— Non è possibile… — mormorò.

— Tutto è possibile! — rispose Speranza con fiducia. — Basta volere, credere e lottare! I miei genitori mi hanno salvato. Ce la farà anche lei! Buona fortuna!

E se ne andò, lasciandosi alle spalle una donna sconvolta.

Angela rimase sulla panchina, distrutta, svuotata, come un’ombra. Tremava per la consapevolezza. Quella era sua figlia. Quella che aveva abbandonato. Per la carriera, le feste, la libertà. Ma quella libertà non era mai arrivata. Massimo se n’era andato con un’altra, il figlio cresciuto ribelle, tra alcol, risse, una vita vuota. La nuora era scappata, lasciandole il nipote malato.

Ora, avrebbe voluto correrle dietro, gridarle: *Sono tua madre!* Ma non osò. Non ne aveva il diritto. L’aveva abbandonata. E il diritto di tornare, l’aveva perso.

Speranza camminava lungo il viale, guardando il cielo e sorridendo. Non sapeva di aver appena salvato un altro cuore.

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