Perché dovrei compatirvi? Voi non avete avuto pietà per me, rispose Tiziana.

Caro diario,

Perché dovrei provare pietà per te? Tu non mi hai mai provato pietà mi diceva sempre la voce di Ginevra, la mia più cara amica immaginaria.

Lanno scorso, la mamma è andata spesso in ospedale. Quando la trovavano i medici a letto nella stanza di reparto di Milano, io restavo a casa con lo zio Michele, il mio patrigno.

Lui, come al solito, lavorava senza sosta: usciva di casa alle sette del mattino e rientrava solo verso le otto di sera. Così mi sembrava di vivere da sola.

Michele mi dava qualche euro per poter pranzare a scuola. Con quel poco rimasto compravo pasta, riso, patate, a volte delle salsicce economiche e con quei pochi ingredienti preparavo la cena.

A fine novembre, tornando da scuola, trovai lo zio Michele nella cucina, appoggiato sui gomiti, a fissare il pavimento. Quando entrai, sollevò lo sguardo e disse:

È tutto, Ginevra, non cè più la nostra mamma.

Non risposi nulla, mi ritirai nella mia stanza. Avevo tredici anni e sapevo che con quella malattia poche persone vivevano a lungo, ma, stranamente, speravo ancora che la mamma potesse restare.

Avevamo sognato insieme il mio futuro: finire il terzo anno di scuola superiore e poi entrare allIstituto di Scienze Infermieristiche. La mamma mi diceva che sarei diventata una brava infermiera.

Figlia mia, il tuo cuore è grande, devi prenderci cura dei bambini, sono loro i più fragili.

Non piansi; rimasi a guardare i rami spogli di un betullo che spuntava sotto la finestra. Un senso di solitudine mi avvolse, come se non ci fossero più né lo zio, né parenti, né amiche di scuola. Solo un vuoto che riempiva tutto intorno.

Il giorno dopo, le zie della mamma cominciarono a radunarsi: la zia Vera, la zia Valeria e la zia Silvana, tutte del Nord. Giravano per lappartamento, parlavano, mettevano in ordine le cose della madre, poi passavano la serata a cucinare.

Io rimanevo nella mia stanza. La zia Vera mi portò una porzione di patate e un polpaccio, ma non toccai nulla.

Alle funzioni funebri arrivarono altre tre donne e due uomini che non avevo mai visto. Al tavolo iniziò subito la discussione su cosa fare con me.

Michele aprì:

Io e Caterina non eravamo sposati, solo conviventi. Quindi a me non importa della bambina. Dobbiamo liberare lappartamento fra due settimane; una stanza per me è troppo, mi cercherò qualcosa di più piccolo. Decidete voi, parenti, chi la prenderà.

Il silenzio calò nella stanza. Le zie si guardarono, senza dire una parola.

Alla fine parlò la zia Vera:

Che dire? Caterina era tua sorella, quindi è tuo dovere crescere sua figlia.

Ma è davvero mia sorella? Caterina e io ci sentivamo solo a Natale e per il compleanno. Non so nemmeno chi sia il padre della bambina. Io ho già tre ragazzi, non ho spazio per unaltra.

Silvana, potresti prenderla? chiese Valentina. Hai poco denaro, ma lassistenza ti darebbe una pensione per la madre. Inoltre tua figlia Cristiana ha dodici anni, sarebbe più facile per voi due.

No! Ci siamo appena trasferiti con Paolo. Ho detto a Cristiana di stare più tranquilla, e voi volete imporre unaltra bambina.

Non mi servono soldi, replicò Silvana. Perché non la prendi tu, Valentina?

Io sono disabile, non mi accetteranno, rispose Valentina, e poi sono più anziana, sarebbe difficile per me.

Così la discussione si concluse senza una decisione. Io, nella stanza accanto, sentivo i loro scambi. Capii allora che nessuna delle zie aveva mostrato alcun vero interesse per me. Quando si stavano vestendo, la zia Silvana commentò:

Se avessimo posseduto lappartamento, forse avremmo potuto trovare una soluzione, ma ora non resta che perdere e subire controlli.

Alla fine, quando fu il momento di sgombrare lappartamento, il mio destino fu deciso: sarei stata affidata alla casa di accoglienza per minori di Milano.

Michele, al momento di consegnarmi alle assistenti, mi disse:

Non serbare rancore, i nostri percorsi ora si separano.

Il primo giorno, una ragazza alta con una folta chioma riccia mi si avvicinò:

Sei nuova? Come ti chiami?

Ginevra.

Non temere. Qui non è così male. Ci sono educatori buoni e altri meno attenti, ma nessuno è davvero cattivo.

È brutto sentirsi soli. Io sono qui da un mese, restiamo insieme, sarà più facile. Io mi chiamo Ludovica.

Anche i tuoi genitori sono morti? chiesi.

No, i miei sono vivi, ma presto forse non saranno più. Ci hanno tolto i diritti dei genitori e noi quattro siamo finiti qui: io e i miei tre fratelli.

Che fortuna! esclamai. Hai fratelli!

Anche se non li avessi, il più giovane, Vincenzo, è ancora piccolo, mentre i due più grandi mi hanno sempre picchiato e costretto a cucinare e a lavare quando la madre non ce la faceva.

Quanti anni hai? chiesi.

Tredici, più tre mesi.

Pensavo fossi più grande.

Qui tutti sono alti: nonno, padre, fratelli.

Ludovica e io rimasi unite fino al termine del terzo anno di scuola superiore.

In quellultimo anno, parlavamo spesso del futuro.

Vorrei entrare allIstituto di Scienze Infermieristiche dissi. Mamma e io sognavamo questo. Non so se riuscirò.

Perché no? Hai cinque in chimica e biologia, e nei voti al massimo due quattro. Inoltre abbiamo delle agevolazioni, ma anche senza di esse ce la farai.

E tu? Hai deciso di fare la cuoca? chiesi.

Vuoto di dolci, voglio diventare pasticcera. Vorrei preparare torte leggere come le nuvole.

Ti ricordi quando la signora Natalia ci portò al concorso vocale e ci fecero vincere, e poi ci mostrarono in TV?

Poi andammo al bar, Natalia ci comprò caffè e pasticcini, con quella crema così soffice.

Conseguii lammissione allIstituto e divenni una delle migliori della classe. Nellultimo semestre mi fu assegnato un piccolo appartamento, con una cucina e un bagno tutto miei. Dopo anni in casa di accoglienza e in dormitorio, finalmente avevo una stanza da sola, senza dover condividere nulla.

Decisi di renderla accogliente: tende chiare, un vaso di gerani sul davanzale, una tovaglia colorata sul tavolo, due pentole rosse a pois e qualche altro utensile. Non era una dimora lussuosa, ma era abbastanza per vivere.

Un giorno, appena finiti i turni, mi avvicinavo al guardaroba per andare al reparto pediatrico dove facevo lassistente di reparto, quando qualcuno mi chiamò.

Era la zia Silvana, la cugina di mia madre, quella che un tempo aveva rifiutato di accogliermi per non disturbare la sua felicità familiare.

Ginevra, ciao! Ti ricordi di me?

Sì, sei la cugina della mamma.

Non sapevo che studiaste qui. Sai, Cristiana mi ha raccontato per caso che nella vostra scuola una ragazza con lo stesso nome ha vinto un concorso.

Ci sono tanti Ginevra, ma è raro incontrarne uno con lo stesso nome. Sono venuta proprio per vedere se siamo parenti.

Scusa, devo andare al lavoro, dissi, dirigendomi verso luscita.

La donna mi seguì, continuando:

Ho sentito che ti hanno dato lappartamento. Ho una piccola richiesta: Cristiana è al secondo anno, le restano due anni di studio, e le compagne di dormitorio non sono affatto affidabili.

Può stare da me fino al diploma? Pagheremmo metà dellaffitto e porteremmo il cibo.

No, non accetto, risposi.

Ma sei sempre stata una brava ragazza! Non ti dispiace la tua sorellina?

Non sono più la bambina di prima. Non mi dispiace Cristiana! Non è stato un errore mandarmi al ricovero, né a casa di accoglienza!

Perché allora mi chiedi pietà? Ho vissuto in una casa di accoglienza, in un dormitorio, e sono qui, viva. Cristiana sopravviverà.

Arrivammo alla fermata, salii sul bus, le porte si chiusero. Silvana rimase a guardare il bus allontanarsi per qualche minuto, poi tornò indietro. Come dice il nostro proverbio: Chi semina vento, raccoglie tempesta.

Fine.

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