Michela sentì la voce sgradevole del marito risuonare tra gli invitati: “Ma quanto mangi? Sei diventata una scrofa!” Cercando di nascondere l’imbarazzo sotto un sorriso forzato davanti agli sguardi compassionevoli dei colleghi, rispose con una risata: “Amore, lo sai che mi ami in qualsiasi modo, e la carne è così buona,” continuando a mangiare anche se il cibo ormai le andava di traverso. Non poteva ammettere di sentirsi ferita fino alle lacrime.
Questa maschera di moglie felice si era incollata a tal punto sul suo viso da non riuscire più a distinguere i suoi veri sentimenti. Dal primo giorno di matrimonio aveva dovuto scegliere tra sopportare i commenti del marito trasformandoli in scherzi o andarsene. L’idea di andarsene la spaventava; a chi altro sarebbe potuta interessare?
Le sembrava che fossero piccolezze perdonabili. Ma con il tempo, quelle piccolezze si accumulavano, e qualsiasi cosa facesse, nella sua testa risuonava la voce del marito che la criticava: non sai cucinare; ma chi pulisce così? sei goffa; guardati, sembri un mostro!
Ogni parola la faceva credere sempre di più di essere grassa, brutta, inutile e incapace di fare qualcosa per bene. Aveva imparato a sorridere quando lui la umiliava in pubblico, a trattenere le lacrime e restare in silenzio quando si faceva vanto delle sue scappatelle.
Perdonava il marito e pensava di essere fortunata con lui. Chi altro l’avrebbe accettata? E poi, la gente l’avrebbe criticata se fosse andata via.
Finita la festa, mentre stava ripulendo la tavola con fatica, il marito giaceva sul divano, biascicando parole incomprensibili. “Michela! Miiiiichela! Vieni qui, mia mucchetta!” farfugliava con la lingua impastata.
Lei non rispose. Voleva solo scappare da casa, camminare per le strade buie per non vederlo né sentirlo in quello stato pietoso.
“Michela! Michela!” insisteva il marito.
Entrò nella stanza asciugandosi le mani con un asciugamano: “Che c’è?”
Il marito cercò di alzarsi, ma riuscì solo a scivolare giù dal divano. La sua faccia era macchiata di rosso, come sempre quando beveva, la camicia fuori dai pantaloni, sgualcita, rivelava la pancia appesa. Gli occhi vagavano, incapace di fermare lo sguardo.
“Vieni qui!”
“Vai a dormire, è tardi,” rispose Michela, storcendo il naso per l’odore di alcol. Si avvicinò per aiutarlo a rialzarsi, ma lui la afferrò, facendola cadere accanto a lui sul pavimento. Tentò di respingerlo, mentre la stringeva con forza cercando di baciarla, alitandole addosso.
E qualcosa scattò nella sua testa. Scostò il viso, evitando quei baci umidi, lo spinse con tutta la sua forza e si alzò. Lui cadde pesantemente all’indietro, guardandola senza capire.
Michela vedeva ora l’uomo che per tutta la loro vita matrimoniale aveva criticato ogni suo gesto. Un uomo ubriaco, grosso, incapace di prepararsi anche solo un uovo, di comprare cibo senza le sue indicazioni, di trovare una camicia da solo. E lui pensava di non essere alla sua altezza. Si credeva un benefattore, convinto che tutto ruotasse solo attorno a lui.
E lei da anni alimentava questa convinzione, sopportava, accettava tutti gli insulti e manteneva per gli altri l’illusione che lui fosse il padrone di casa. Lui prendeva le decisioni.
E solo ora comprendeva che quell’uomo non le serviva. Non voleva più vivere così, non voleva più vederlo ogni mattina, ascoltare le sue cattiverie, percepire gli sguardi pietosi degli altri quando le urlava contro. Basta, era stanca.
“Michela! Che fai? Michela?” La sua occhiata lo fece rinsavire un po’.
“Me ne vado,” disse semplicemente, andando in camera a raccogliere le sue cose. Sentiva un’enorme leggerezza, come se si fosse liberata di un macigno che aveva portato con sé per anni.
“Che cosa? Dove? Michela! Dove pensi di andare?” esclamava.
Ma lei non lo ascoltava più. Aprì la vecchia valigia e iniziò a mettere dentro le sue cose con calma…