Quando ti metti a dare una mano a qualcuno, devi stare attento. Una buona azione perde valore in un batter d’occhio. Ti aiutano una volta e subito pensano che per te sia facile, che tu abbia “un eccesso” di tempo, di denaro, di energie, di risorse.
C’è una trappola in quella gratitudine: l’aiuto può trasformarsi in un peso. Prima ti ringraziano con un sorriso, ti inchini con rispetto; poi ti chiedono cortesemente; poi cominciano a pretendere. E quando non riesci più a farlo, ti trattano come se avessi tradito, come se avessi dimenticato un debito. È come se ti avessero chiesto lo stipendio o il rimborso di un prestito.
Nel loro modo di vedere, sei diventato “un benefattore”, quindi devono continuare a “fornire”. La tua gentilezza è ormai inserita nella loro lista dei “ricavi programmati”. Contavano su di te! Tu ti sei offerto di salvare, ora ti rifiuti? Allora sei colpevole.
C’è un’altra dura verità: a volte il tuo aiuto suscita invidia. “Se lui può dare, vuol dire che ha un surplus. Perché a lui arriva di più e a me solo una briciola?” Così il tuo sostegno non è più percepito come dono, ma come umiliazione.
E quando dici: “Scusa, non ce la faccio più”, invece di trovare comprensione ricevi rimproveri e accuse. Spesso la storia si ripete: prima c’è una gratitudine sincera, poi la richiesta, poi l’esigenza, infine rabbia e svalutazione di tutto quello che hai fatto. L’aiuto trasforma rapidamente l’assistente in “debitore”. Basta fermarsi un attimo e ti dipingono come il colpevole.
Perciò, prima di allungare la mano, ricorda che dopo la seconda o la terza domanda è il caso di riflettere. Non trasformare la tua bontà in “servizio a vita”. Spesso da te si attendono non grazie, ma un obbligo infinito. E il finale è sempre lo stesso: il vecchio salvatore diventa “traditore”.
Il bene fatto con sincerità, senza secondi fini, non ha obblighi. O viene apprezzato, o perde valore all’istante. E in quel caso non sei più tu a sbagliare.
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Un tempo la mia amica Ginevra aveva una compagna d’infanzia, Lucia, con cui si sostenevano sempre. Quando Lucia perse il lavoro, Ginevra intervenne subito: le diede dei soldi, la presentò a conoscenti, la ospitò per qualche mese nella sua casa di Roma.
All’inizio Lucia la ringraziava quasi ogni giorno. Poi si abituò. E poi iniziò a considerare quell’aiuto come un diritto. — Sei l’unica per me, mi salverai sempre, vero? — ripeteva ogni volta che chiedeva ancora.
Ginevra continuava ad aiutare, finché un giorno disse: — Scusa, non ce la faccio più. Anch’io sto attraversando un momento difficile.
In un attimo Lucia cambiò tono. — Ma io contavo su di te! Mi avevi promesso! Come possono fare i veri amici?
E tutto quello che Ginevra aveva fatto per anni sparì dalla sua memoria, lasciando solo il risentimento: “non mi hai aiutata quando ti ho chiesto”. Il dolore più grande non veniva dal denaro o dal tempo perso, ma dal fatto che l’amicizia vera non c’era mai stata; c’era solo l’abitudine a prendere.
Fu allora che Ginevra capì la lezione fondamentale: l’aiuto vale solo quando è accompagnato da gratitudine. Se al posto della gratitudine arriva una pretensione, non è più supporto, ma sfruttamento.
Da quel momento aiuta solo chi è disposto a tendere la mano agli altri. Sa bene che il bene deve essere reciproco, altrimenti si trasforma in catene.