Quando il pane cade dal lato del burro: una storia di perdita, dolore e famiglia

Quando il pane cade con la burrata all’ingiù: una storia di perdita, dolore e famiglia

Beatrice Rossi, come ogni mattina, spalmava la burrata su una fetta di pane appena sfornato. Una tranquilla domenica, il cielo fuori era limpido e in casa profumava di caffè. Suo marito, Marco, sedeva a tavola assorto, sorseggiando dalla sua tazza preferita. Poi, il trillo improvviso del telefono.

—Chi chiama così presto?— mormorò Beatrice, asciugandosi le mani sul grembiule.

Marco afferrò il telefono.

—Pronto? Sì, dimmi…

Beatrice lo osservò mentre il volto rilassato si trasformava in un rigido pallore. Le dita attorno alla tazza tremavano.

—Cos’è successo?— chiese a labbra serrate.

Marco si rivolse a lei, lento:

—Ludovica… un incidente… non c’è più…

Il pane scivolò dalle mani di Beatrice e cadde a terra — con la burrata rivolta verso il basso.

Quando il parto è solitudine
Le tornò in mente Ludovica, quattordici anni prima, mentre partoriva sola. Nessuna mano da stringere, nessuno accanto a lei nel dolore delle contrazioni.

Suo fratello, Luca, aveva cercato di entrare in ospedale, ma non era permesso. La madre, ancora arrabbiata per la gravidanza inaspettata, non aveva risposto al telefono.

Il padre del bambino, uno studente dell’università, era sparito non appena scoperto. Aveva fatto ritorno a casa sua senza più farsi vivo.

Quella notte d’agosto, Ludovica aveva gridato dal dolore e dalla paura. Quando le misero in braccio il bambino, pianse — di gioia, di dolore e di terrore per il futuro.

Aveva solo diciotto anni. Era sola. E il mondo le sembrava freddo come il gelo.

La telefonata che cambiò tutto
Quattordici anni dopo, quella stessa mattina, un’altra chiamata. Le parole che Beatrice aveva temuto per tutta la vita:

—Ludovica… non c’è più…

Nel corridoio, passettini leggeri — la loro figlia, Ginevra, di sette anni, si preparava per la scuola.

—Mamma, dov’è il mio astuccio con le farfalle?

Beatrice si asciugò le mani, cercando di mantenere la voce calma:

—Sulla scrivania, guarda bene.

Marco era ancora immobile, il volto contratto.

—Stava con degli amici… di notte… si stavano divertendo— disse freddamente. —E ora Matteo è solo. Completamente solo…

Matteo, il figlio di Ludovica. Il loro nipote. Quattordici anni. Orfano.

Il ragazzo con lo zaino e una scatola
La giornata passò come in un sogno. Portarono Ginevra a scuola, dicendole che la zia era malata. Il funerale fu breve — poche persone si presentarono.

Quello che Beatrice ricordava meglio era il volto di Matteo — scavato, con occhiaie scure, che si teneva a distanza da tutti. Persino da Marco.

—Dobbiamo prenderlo con noi— disse Marco. —È nostro, ora.

Beatrice annuì in silenzio. Cosa c’era da discutere? Un orfanotrofio?

Il giorno dopo, Matteo arrivò. Con uno zaino e una scatola. Rimase immobile sulla soglia, osservando diffidente.

—Vieni, accomodati— cercò di sorridere Beatrice. —La tua stanza è qui. Hai fame?

—No— rispose secco, scomparendo dietro la porta chiusa.

E poi, solo silenzio. Freddo. Distanza.

Usava solo per mangiare, sempre in silenzio, evitando lo sguardo di tutti. Le domande ricevevano risposte monosillabiche.

A scuola, problemi: assenze, risposte sgarbate. Gli insegnanti si lamentavano.

—Matteo, perché non ne parliamo?— provò Beatrice. —Se hai bisogno di aiuto…

—Fatevi i fatti vostri!— esplose. —Tanto non vi importa niente di me!

Ginevra cominciò a temere il cugino. Non era mai stato aggressivo, ma la ignorava. A volte la guardava in modo da farle rabbrividire.

—Mi prende in giro— si lamentò una volta. —Dice che sono stupida e piccola.

Marco tentò di parlargli, ma Matteo fissava il muro senza rispondere.

La tensione cresceva. Ogni rumore in casa metteva ansia a Beatrice. Marco era nervoso. Ginevra si chiudeva in sé.

Poi, un’altra chiamata.

—La scuola… Matteo ha fatto una scenata. Dobbiamo andare.

La scintilla che svelò la verità
Nell’ufficio del preside, l’atmosfera era tesa. Un’insegnante giovane, due madri furiose, Ginevra in un angolo in lacrime.

—Vostro nipote ha aggredito alcuni bambini— annunciò il preside. —Uno di loro è ferito.

—Non li ho toccati!— sbottò Matteo. —Li ho solo spinti via!

—Zitto!— Marco tratteneva a stento la rabbia.

Una delle madri urlò quasi isterica:

—Mio figlio è a terra per colpa sua! Non è adatto a stare con bambini normali!

Ginevra scoppiò in singhiozzi.

—Piccola, cosa c’è?— corse da lei Beatrice.

La bambina scuoteva la testa, nascondendo il viso tra le mani.

Il preside stava per prendere una decisione definitiva.

—Ritireremo le sue cose— disse Marco.

La verità che abbatte i muri
A casa, il caos.

—Sei pazzo?!— gridava Marco. —Ti abbiamo accolto e tu…!

—Tu non sei mio padre!— urlò Matteo.

Poi, l’esplosione.

—Loro la tormentavano!— gridò Ginevra. —Tutti i giorni! E Matteo… Matteo l’ha difesa!

Tutti si bloccarono.

Beatrice si sedette lentamente.

—È vero?

Matteo scrollò le spalle:

—Cosa dovevo fare? Guardarli rubarle la merenda?

—Piccola… sorellina…— mormorò.

Ginevra gli si avvinghiò al collo:

—Sei il fratello migliore! Non ho più paura!

Matteo le posò delicatamente una mano sui capelli.

Marco cadde sulla sedia.

—Non… non lo sapevamo…

Un nuovo giorno
Il mattino seguente, Marco andò a scuola. Tornò stanco ma soddisfatto.

—Tutto risolto. Il preside si è scusato. I veri colpevoli sono quei ragazzi. Matteo resta.

Quella sera, Beatrice li vide chini su un disegno:

—Questa sei tu, io, papà e mamma!— spiegava felice Ginevra. —E tu sei il più alto!

—Mi hai fatto il naso storto— sorrise lui.

—Ma ti somiglia!— rise lei.

Beatrice chiuse piano la porta.

Sei mesi dopo
Matteo era ancora riservato, ma il suo silenzio era tiepido. Accompagnava Ginevra a scuola, la aiutava con i compiti, la difendeva.

—Ginevra ha sempre sognato un fratello maggiore— disse Beatrice al marito.

—Ora ce l’ha— rispose Marco. —E noi un figlio. Una famiglia vera.

Dietro la porta, una risata:

—Ehi, mocciosa, non puoi andare al cinema vestita così!

Beatrice sorrise.

Ora lo sapeva: anche il cuore più spezzato può essere riparato con amore e pazienza. Basta non aver paura di tendere una mano.

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