Quando il rombo del motore Mercedes svanì per sempre tra gli alberi, il silenzio mi gravò addosso come una coperta pesante

Quando il rombo del motore della Mercedes svanì definitivamente tra gli alberi, il silenzio mi cadde addosso come una coperta pesante. Rimasi lì, con la borsa in mano, le ginocchia che tremavano e ogni respiro che faceva male. Laria era impregnata dellodore di terra bagnata, muschio e foglie marce. Gli uccelli tacevano. Era come se la foresta stessa sapesse: qualcosa di molto sbagliato era accaduto.

Non gridai più. Le lacrime, che non erano venute al funerale, sgorgarono da sole. Non per il lutto. Per lumiliazione. Per la consapevolezza che il mio stesso sangue mio figlio mi aveva gettata via come un vecchio mobile.

Mi sedetti su un tronco caduto, cercando di riordinare i pensieri. Il sole cominciava a calare, la luce si tingeva di giallo, le ombre si allungavano. Nel silenzio, sentivo solo il battito del mio cuore. Sapevo: se fossi rimasta lì, sarei morta. Ma non ero disposta a dargli questa soddisfazione.

Tirai fuori dalla borsa la foto di mio marito. Il suo viso, quel sorriso familiare, mi guardava negli occhi.

“Vedi, Enrico,” sussurrai. “È così che lhai cresciuto. Di questo bravo ragazzo eri così orgoglioso.”

Una lacrima cadde sulla foto. E in quel momento, qualcosa in me scattò. Non fu la paura a prendere il sopravvento, ma la volontà. Quella testarda forza contadina che mi aveva sostenuta per tutta la vita.

Mi alzai. Se lui credeva che sarei morta in silenzio, si sbagliava. Avevo superato la guerra, la miseria, gli ospedali. Anche questa volta sarei sopravvissuta.

Camminai. Non so per quanto. La foresta era fitta, i rami scricchiolavano sotto i miei piedi. Le scarpe piene di fango, il cuore in gola. Poi, in lontananza un rumore, e poi i contorni di una piccola casetta. Una capanna abbandonata di cacciatori. Il tetto era mezzo crollato, le finestre sprangate, ma dentro era asciutto. Trovai una vecchia coperta. Mi sdraiai su una panca e, nel cuore della notte, tra i richiami dei gufi, mi addormentai.

Mi svegliai allalba. Ogni fibra del mio corpo faceva male, ma la mente era lucida. Sapevo cosa fare: tornare in città. Non per vendetta. Per giustizia. Perché quel ragazzo che aveva abbandonato sua madre nella foresta non era più un uomo. E chi agisce così deve capire che la vita, prima o poi, presenta il conto.

Vagai per ore finché non sentii il rumore delle auto in lontananza. Sbucai sulla strada statale. Un camionista, un uomo sulla sessantina con i baffi, frenò di colpo.

“Santo cielo, signora, che ci fa qui?”

“Torno a casa,” dissi piano. “Mio figlio si è dimenticato di riportarmi indietro.”

Non fece altre domande. Mi fece salire e mi portò in città. Andai alla polizia. Il giovane maresciallo mi fissò incredulo.

“Signora, è seria? Dice che suo figlio lha lasciata nella foresta? Sicuro che non sia un malinteso?”

Tirai fuori il telefono quel vecchio modello con i tasti. Gli mostrai lunica foto che avevo scattato dalla macchina: la Mercedes nera che spariva tra gli alberi.

“Credo che non ci siano malintesi, giovane,” dissi.

La storia si diffuse rapidamente. I giornali titolarono con la mia foto: “Il figlio imprenditore abbandona la madre anziana nel bosco.” Vicini, conoscenti, le donne della parrocchia tutti ne parlavano. La foto di Andrea, al funerale, vestito di nero, ora significava solo freddezza e vergogna.

Quando lo convocarono in questura, era pallido, nervoso. Ci incrociammo nel corridoio.

“Mamma perché mi hai fatto questo? È finita. La mia azienda, la mia reputazione tutto!”

Lo guardai. Nei suoi occhi non cera rimorso, solo paura.

“Anche per me era finita, figlio mio,” dissi piano. “Ma ho deciso di restare viva.”

Lindagine durò ore. Assunse un avvocato, cercò di spiegare che era stato “un equivoco”, che “si era spaventato”. Chiese persino scusa, ma sapevo che non era per me era per lavare via la sua vergogna.

Il tribunale lo giudicò colpevole. Abbandono di persona anziana e pericolo di vita. Un anno e mezzo con la condizionale, una multa di 5.000 euro, lavori socialmente utili. La legge lo considerò unammonizione. Ma la vera punizione arrivò dopo.

Quando uscimmo dallaula, si fermò in cima alle scale. Mi guardò, lo sguardo vuoto.

“Tu mi hai rovinato la vita,” mormorò.

“No, figlio mio,” risposi. “Te la sei rovinata da solo. Io sono solo uscita da quel bosco.”

Non lo vidi più. Vendette la casa, partì per lestero. Dicono che viva in Germania, da qualche parte.

Io sono rimasta. Nello stesso appartamento che lui voleva prendersi. Lho ristrutturato.

Le pareti hanno un colore nuovo, i gerani fioriscono alla finestra. Ogni mattina preparo un caffè forte, con un po di latte, senza zucchero. E metto sempre due tazze sul tavolo. Una per mio marito.

Sul davanzale cè un sassolino bianco. Lo stesso che mi graffiò il ginocchio quando caddi su quel sentiero. Un ricordo. Non del dolore della forza.

Perché la vecchiaia non inizia quando ti gettano via. Inizia quando credi davvero di non avere più vita dentro di te.

Io non lho creduto.

Ed è per questo che sono ancora qui.

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